a Annalisa Teodorani
Vorrei esprimere qui l’esperienza poetica che sino a oggi ha dato slancio alla mia vita. E che, misteriosamente, si nutre di quella di tutti i poeti che mi hanno preceduto, di quelli a noi contemporanei e di quelli futuri. Come la vita, del resto.
Vorrei riportare a unità, identificare poesia e vita. Perché penso, anzitutto, che la poesia sia un dire Sì alla vita così com’è. Con le sue presenze e assenze, le gioie e le disgrazie, col passare del tempo da cui, a volte, ci sentiamo frodati. Insomma, coi dualismi di Luce e Oscurità che tutti noi viviamo.
L’atteggiamento poetico è proprio un modo di vivere questa dimensione duale nel tentativo di ritrovare l’unità di se stessi. Di guardare negli occhi l’esistere e abbracciare tutto, senza rifiutare nulla. Abbracciarlo e, per quanto possibile, comprenderlo con la mente e il cuore. La parola che scriviamo è il tentativo di esprimere e condividere questa comprensione intuitiva. Ma è il silenzio interiore che ci offre e dona la possibilità della parola. Il silenzio è il fuoco in cui la parola si forgia, prende forma. E in questo modo s’apre alla possibilità di vedere se stessi e le cose vissute con occhi nuovi.
Possibilità di andare finalmente oltre la sensazione di stare oggi in un mondo abbandonato dal mistero e dalla sacralità, di star camminando su una terra desolata dove ogni essere è stato ridotto a pura materialità. Puro oggetto. Dove tutto è sfruttabile e manipolabile, tanto più la parola. In questo l’atto poetico è uno dei possibili percorsi attraverso il quale si può guardare alla vita con occhi nuovi (come diceva Proust). Storicamente questo significa portare finalmente a compimento la rivoluzione baudelariana, abbandonando ogni forma di soggettivismo, di pessimismo autoreferenziale.
La poesia non è fuga dalla vita ma è essere talmente immersi in essa da poterla cantare. Essere totalmente presenti a se stessi, alla relazione con l’altro tanto da comprendere che la vita stessa è un canto. È apertura assoluta, indifesa, universale. Il poeta si fa nudo di fronte al mondo, depone l’armatura e le armi mortali dell’Io. Quel silenzio interiore non da’ forma solo alla parola ma prima di tutto al suo sguardo, al suo essere. E man mano che procede su questa via il poeta fa, crea la propria coscienza, la propria consapevolezza. Conosce se stesso sempre di più, e nel conoscere se stesso conosce il mondo. Quale infinita, meravigliosa possibilità!
Sì, perché in questo aprirsi alla conoscenza il poeta può giungere sino a ri-conoscere se stesso in ogni cosa. In ogni altro essere. Non solo umano. Penso sia questo che intendesse Rilke quando scriveva al giovane poeta di lasciare che tutto accadesse, semplicemente accadesse, abbandonando il proprio ego. Solo così possiamo essere “cosa tra le cose” senza più volontà di dominio, di sopraffazione. E in questo modo l’atto poetico indica una via di salvezza. Di amore e compassione incondizionato. Qui la poesia è un atto erotico: passione e godimento. Un atto rivoluzionario, è sogno e cambiamento.
La poesia siamo noi, ognuno di noi. È l’albero che in autunno perde le foglie e in primavera rinasce, è il fiore che colma della sua essenza una sola notte e poi muore. È il mare e il vento che ora lo agita ora l’accarezza. Ma è anche il mare che l’uomo inquina, le foreste che l’uomo incenerisce. Perciò quando scrivo una poesia non la penso mai come tale.
Uno degli scrittori che più amo e spesso rileggo è il giapponese Kawabata. Egli nella sua Nobel lecture del 1968 disse che quando gli veniva richiesta una dedica scriveva alcune poesie tra cui questa:
Fiori in primavera
Cuculi in estate
Luna in autunno
e le fresche nevicate in inverno.
Sono versi di Dogen Zenji, maestro zen vissuto nella prima metà del 1200. Versi in cui Kawabata ritrovava lo spirito di pura, semplice adesione all’universo di cui ognuno di noi è capace se solo cessasse di seguire la propria mente egoica. Il poeta guarda la luna splendente in una notte d’autunno e la luna guarda lui. S’inabissa nella natura sino a fondersi con essa.
La poesia è questo guardare con occhi sempre nuovi, puri. In un certo senso, che ancora non mi è pienamente chiaro, stare nel silenzio profondo che precede la parola scritta, scrivere versi e leggere quelli scritti da altri poeti è la possibilità e il tentativo di riscoprire l’originaria purezza che serbo dentro di me. E che rimane ignota e misteriosa. L’ignoto è dentro di noi anche se lo ignoriamo scrive Elytis. E in noi cresce, fiorisce, prende il senso cui la poesia da’ forma. E alla quale il modo di stare al mondo di ciascuno di noi da’ forma diversa e preziosa.
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La poesia non ha passato né futuro perché è e agisce sempre nel presente, nel qui e ora. Quei versi di una limpidezza assoluta del maestro Dogen non negano le stagioni, il tempo, le forme dell’essere (che, tra l’altro, è il titolo della poesia) ma vanno oltre tutto questo. Non sono una speculazione filosofica ma esprimono l’esperienza profonda vissuta dal maestro nel silenzio della meditazione. Nati nel silenzio al silenzio ritornano perché di fronte al mistero del mondo non si può più dire. Solo prenderne atto meravigliati e tacere. E in quel tacere la parola trova completezza mai definitiva, la possibilità di nuove forme, nuovi significati, nuovi incanti. Ecco perché continuiamo a scrivere.
Penso che in queste infinite possibilità che il percorso poetico offre – al poeta che scrive e vive la poesia ma anche al lettore – stia lo slancio vitale della poesia. E in questo, credo, il poeta possa reinventare una speranza come possibilità di riscoprire la natura profonda di ciò che siamo, di poter dar senso al nostro essere presenti qui, su questo mondo e dentro questo mondo. La possibilità di abbandonare la strada del cattivo divenire che la cultura del possesso, della separazione e del soddisfacimento egoico ci indica come unica strada del benessere. La possibilità e la gioia di vivere in modo più consapevole e anarchico la vita. Di ritornare a essere padroni di noi stessi.
Forse è proprio questo che intende dirci Bonnefoy nello scrivere:
“Io credo che non vi sia oggigiorno poesia vera che non cerchi, e non intenda cercare, fino all’ultimo respiro, di fondare una nuova speranza”.
Già, perché siamo e saremo poeti sempre, sino in fondo, tutti, sino all’ultimo respiro. E anche oltre.
Roberto Concu
(Intervento letto a Cagliari 19 ottobre 2013 in occasione dell’ Incontro per i 25 anni della rivista Poesia edita da Nicola Crocetti, presente l’editore.)