Le short stories di Alice Munro sono apparse spesso su riviste come The New Yorker accanto a reportage, commenti politici, articoli di costume e poesie. Dopo averne letto le raccolte sembra che il luogo più adatto per i suoi racconti sia proprio tra le colonne della carta stampata, accanto ai fatti della vita quotidiana. Non solo perché – come la stessa autrice ha affermato in una delle sue poche interviste – la sua fonte d’ispirazione è ciò che accade nella vita, ma anche perché la narrazione di Alice Munro ha proprio l’andamento della vita.
Il raccontare prende l’avvio da eventi quotidiani in cui ci si può sempre in qualche misura ritrovare: una decisione rimandata, una riunione familiare in occasione del Natale, una cena tra vicini di casa, la malattia di un familiare, il viaggio dal paesino d’origine alla grande città per frequentare l’università, un ricordo d’infanzia, una vacanza, un rimpianto. Tutto procede in maniera lineare, quasi inevitabile, reso persino incantevole dalla scrittura attenta e puntigliosa di Alice Munro, immerso nel paesaggio estatico dell’Ontario. Così sconfinato e vivo da divenire uno degli indiscussi protagonisti. I racconti di Alice Munro non avrebbero lo stesso sapore e la stessa vitalità senza l’Ontario.
Ma Alice Munro non s’accontenta di osservare il semplice scorrere dell’esistenza. Il suo sguardo cerca sempre di andare oltre, di cogliere la sorprendente complessità che si cela dietro gli accadimenti. Anzi, è proprio questa incessante scoperta che l’ha spinta a continuare a scrivere sino a oggi.
Di fronte allo sguardo lucido di Alice Munro tutto si rivela nella sua apparenza: basta un gesto – il riemergere di un ricordo, un incontro fortuito – e ecco l’improvviso scarto che fa cambiare ritmo alla storia, che rivela la vera realtà di relazioni sino a quel momento tenute in piedi da quell’invisibile collante che è l’ego umano. Allora una morte creduta accidentale diventa sinistra, i legami familiari si rivelano inconsistenti, il trasferimento nella grande città non altro che la fuga, spesso inutile, da convenzioni secolari; la malattia di un coniuge un contrappasso beffardo, un matrimonio sbagliato si rivela lo specchio della debolezza interiore, quasi una rinuncia alla propria felicità.
Nella scrittura di Alice Munro c’è una profonda consapevolezza della vita. E la sua arte non è il tentativo di mettere ordine nelle cose, quelle scritte come quelle accadute. L’autrice canadese sa bene che questo tentativo è vano, e perciò non si sforza di dare lezioni, di spiegare perché accadono determinate cose piuttosto che altre. Piuttosto, s’immedesima nei personaggi con una compassione viva e dubbiosa. È come se la sua narrazione prendesse le mosse da una domanda che rivolge a se stessa ma anche al lettore: come lei si comporterebbe trovandosi in una determinata situazione? Ed è proprio questo di cui lei ama narrare. Così tra le sue mani ogni storia diventa uno dei racconti possibili, sempre aperto a un dipanarsi altro, a un esito che avrebbe potuto essere diverso. Ma Alice Munro sa che questo diventa credibile e profondamente umano solo se lo scrittore scompare, si chiama fuori dalla vicenda e dalle emozioni.
Questa poesia dell’umano Alice Munro la racconta con uno stile non solo raffinato ma sincero. Come nella poesia anche nel racconto l’autore non può barare. Non può cavarsela con un escamotage da romanzo: la misura del racconto non lo permette, come ben osserva Jonathan Franzen nella sua breve meditazione dedicata alla Munro[1]. Proprio per questo i racconti di Alice Munro non sono comodi e rassicuranti, non mascherano il mistero dell’esistenza. Mistero che a volte si rivela crudele altre meraviglioso. Al contrario, Alice Munro non si sottrae a quel mistero. È lei stessa a spiegarcelo: “Credo che la gente legga le mie storie per le stesse ragioni per cui io le scrivo. Perché non cerco l’happy ending, perché scrivo per un momento di shock, di stupore, di rivelazione – ciò che rende la vita appassionante per me. E se riesco a suscitare negli altri questo effetto, è meraviglioso. Lo so, parlo di cose difficili, di sofferenza, di come si sopravvive alla sofferenza”[2].
[1] J. Franzen, Più lontano ancora, pg. 265, ed. Einaudi, 2012
[2] Così la Munro nell’intervista rilasciata a Irene Bignardi nel 2008 e ora raccolta nel libro Brevi incontri, Marsiglio editore 2013