18 Dicembre 2024
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Il lavoro prima di tutto – Stefano Fassina

All’inizio di luglio ho assistito a Cagliari alla presentazione del libro di Stefano Fassina, responsabile del dipartimento Economia e Lavoro del Partito Democratico, sulla scia di un insano interesse che sto coltivando negli ultimi tempi, ovvero la lettura di libri di argomento economico.

Non sono propriamente letture d’evasione e gli effetti sull’umore tutt’altro che positivi, ma la tentazione di provare a capire qualcosa su quello che sta succedendo, sulle cause e sulle possibili conseguenze di questa crisi sul nostro futuro e su quello dei nostri figli, è più forte di ogni istinto di auto-conservazione. L’incontro con l’autore è stato anche l’occasione per apprendere gli ultimi dati sul contesto economico sardo dove, al vertice di una serie di primati negativi all’attivo dell’attuale amministrazione di centro-destra, spicca il tasso di disoccupazione giovanile stimato al 44,7%: praticamente in Sardegna un giovane su due non lavora.

Come si concretizzerà in termini di programmi futuri l’esortazione di Fassina a mettere “il lavoro prima di tutto”, che è anche il titolo del suo libro, non è facile da immaginare. Ma le critiche ferme e convinte da parte di esponenti di spicco dell’attuale opposizione, intervenuti alla presentazione del libro, rivolte alla politica economica dell’attuale governo nazionale, lasciano credere che all’orizzonte appariranno, forse, soluzioni di segno diverso rispetto a quelle propugnate dal pensiero unico e praticate appunto dal governo.

Immaginare scenari nuovi, prospettive a cui tendere, battaglie di idee da combattere per vincere la battaglia politica è anche il tema dominante di questo libro. Per Fassina dire che il “lavoro – viene – prima di tutto” significa ritrovare la perduta autonomia culturale necessaria a immaginare risposte coerenti con questo assunto. Nel generale smarrimento seguito alla “morte delle ideologie” incentrate sui valori collettivi e sociali, infatti, solo la Chiesa, forte di un pensiero secolare, ha lucidamente individuato le cause dell’attuale crisi nell’individualismo utilitaristico e nel primato dell’economia sulla politica e dunque sul bene comune. Mentre – sempre secondo Fassina – le forze di centrosinistra sono corse dietro alle mode del tempo, finendo di fatto per puntellare gli interessi dei gruppi conservatori: “ritiro della politica per lasciar fare alle forze auto regolative dell’economia”, “archiviazione del partito intellettuale collettivo per il vuoto leaderismo mediatico”, sono solo alcuni dei motivi più ricorrenti.

Il momento che stiamo vivendo, contrariamente a quanto si continua a credere anche a sinistra, non è – spiega Fassina – una crisi generata da una finanza avida e irresponsabile, non è il debito pubblico degli stati ad averla provocata, né ci troviamo nella fase di aggiustamento dopo quella degli eccessi. La situazione è molto più complessa di quanto si voglia far credere ed ha le sue radici nell’affermazione di un preciso ordine economico e sociale. Quello in cui ci troviamo è dunque un ordinario ciclo economico caratterizzato da regressione economica e sociale che non ha colpito tutti allo stesso modo.

Ciò che emerge chiaramente dalla lettura del libro di Fassina, i cui argomenti sono sostenuti da inequivocabili dati rappresentati con grafici e tabelle, è il fatto che all’origine dell’attuale situazione economica c’è l’accentuarsi della disuguaglianza, originata dal declino della civiltà del lavoro che la finanza per una lunga fase ha nascosto con l’espansione del debito privato, cresciuto proprio per permettere alle classi medie, data la stagnazione dei redditi, di continuare a consumare e permettersi stili di vita da classi medie. Questi rapporti di causa ed effetto sono ormai riconosciuti in maniera sempre più esplicita nel dibattito internazionale e in Italia ben illustrati da Marco Panara in La malattia dell’Occidente (Editori Laterza 2010).

A partire da queste analisi Fassina deduce che le misure adottate in Europa e seguite anche in Italia e negli altri paesi deboli dell’area euro, come i licenziamenti facili, la precarizzazione del lavoro, il congelamento dei salari, i tagli indiscriminati alla spesa pubblica, non ci faranno uscire dal tunnel.
E nemmeno c’è da stupirsi delle previsioni di ulteriore allungamento della stagnazione economica se si colpisce sia la domanda pubblica (con i tagli alla spesa) che la domanda privata (con la contrazione dei salari e la parallela riduzione dell’ welfare).

Non ci sono ricette facili o scorciatoie per ridurre l’attuale debito pubblico – dice Fassina – ma una cosa è certa: le misure adottate dalle tecnostrutture europee e dai conservatori di Berlino non sono le inevitabili soluzioni tecniche imposte dalla situazione. Sono invece il frutto di scelte politiche ispirate a ben identificabili ideologie. E a questo proposito cita l’economista J. M. Keynes che negli anni ’30 indicò agli Stati Uniti la via d’uscita da una delle più drammatiche crisi economico-finanziarie della storia, con cui quelle attuali, a partire dal 2007, hanno molti tratti in comune, primo fra tutti il livello di distribuzione del reddito.

Per Keynes “le idee degli economisti e dei filosofi politici, così quelle giuste come quelle sbagliate, sono più potenti di quanto comunemente si ritenga e spesso gli uomini della pratica, i quali si credono affatto liberi da ogni influenza intellettuale, sono spesso gli schiavi di qualche economista defunto” ma “il potere degli interessi costituiti si esagera di molto in confronto con l’affermazione progressiva delle idee” e “presto o tardi sono le idee, non gli interessi costituiti, che sono pericolose sia in bene che in male”.

Il lavoro prima di tutto è un libro che si legge agevolmente e per quanto mi riguarda, dopo questa lettura, per un po’ metterò da parte i libri di economia, perché due o tre cose credo di averle finalmente capite: basta il buon senso per riconoscere che siamo in una trappola di liquidità e la tendenza in atto si può invertire mettendo al centro dei programmi politici la valorizzazione della persona che lavora ovvero attribuendo al lavoro un valore strategico, non solo come fatto etico ma proprio come motore di sviluppo, a partire da una redistribuzione del reddito tale da rilanciare la domanda e modificare i dati economici attuali.

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