Le persone sono come la terra in cui nascono. E non cessano di esserlo anche quando vanno a vivere altrove. Ancor più se sono nati su un’isola. Perché un’isola è un universo a sé.
In un’isola la natura forgia ancora l’animo degli abitanti e le dinamiche sociali. Crea una identità a volte difficile da comprendere per chi arriva da fuori. Il mare col suo ondeggiare ora impetuoso ora tranquillo, gli scogli e le rocce che ne rivelano l’origine, il vento che spazza ogni angolo dell’isola.
È proprio questa la sensazione che ho avuto dopo aver letto i due romanzi di Peter May pubblicati da Einaudi: L’isola dei cacciatori di uccelli e L’uomo di Lewis. Primi di una trilogia il cui terzo e ultimo romanzo uscirà in Italia nel 2014.
Lewis è proprio l’isola in cui i tre romanzi sono ambientati. È la più grande delle Ebridi esterne, a tre ore dalla costa nord-occidentale della Scozia. Clima rigido, rocce scure e venti gelidi; terra brulla, distese di torba e tempeste impetuose che sferzano la terra. Qui la gente parla in prevalenza il gaelico scozzese piuttosto che l’inglese. Anche i protagonisti dei romanzi di Peter May. Non a caso quindi hanno tutti un nome gaelico: Ceit, Marsaili, Finnegan, Artail, Tormod…
Fin Macleod è l’ispettore che ne L’isola dei cacciatori di uccelli è inviato da Glasgow per indagare sull’omicidio di Angus Macritchie. Fin Macleod è nato proprio a Crobost, isola di Lewis. Ha lasciato la sua isola da ragazzo in apparenza per andare a studiare all’università nella grande città di Glasgow. Ma non è per i suoi natali che viene costretto a ritornare sull’isola.
I romanzi di Peter May non sono semplici noir. Del noir hanno la struttura classica: omicidio, indagine, un ispettore maledetto che risolve il caso a modo suo. Solo che, pagina dopo pagina, l’indagine poliziesca diviene ben presto un inatteso quanto efficace scandagliare gli oscuri recessi dell’animo umano. Così l’ispettore dovrà fare i conti tanto col passato da cui ha cercato di fuggire quanto col suo presente. Sull’isola di Lewis il tempo è una dimensione circolare. Non solo per Fin Mecleod.
L’ispettore ha appena perso l’unico figlio di otto anni. La morte del piccolo mette a nudo la fragilità del suo matrimonio senza amore e scava una distanza ormai incolmabile tra lui e la moglie Mona. Col dolore che gli ha spezzato il cuore e un matrimonio in frantumi Fin Mecleod si è rifugiato in un isolamento che rischia di metterlo fuori gioco anche sul lavoro. L’indagine sull’omicidio di Angus Macritchie è la sua ultima chance per rimettersi in gioco. Prendere o lasciare. Il ritorno a Crobost, isola di Lewis lo riprecipita subito nel passato, di fronte all’amore di una donna che lui ha rinnegato ma che non ha mai smesso di amarlo, e che per ripicca ha sposato Artair, il suo vecchio amico di infanzia. Lo riporta violentemente al clima duro, spietato della vita isolana coi suoi riti altrettanto estremi che raggiungono il culmine nel massacro annuale di duemila sule, guga in gaelico. Uccelli che vanno a nidificare sull’An Sgeir, una striscia di gneiss lunga un chilometro a largo dell’isola di Lewis, battuta da continui venti e da mostruose mareggiate che risalgono a sud-ovest. Qui per due settimane intere uomini e uccelli convivono in un’atmosfera claustrofobica da girone dantesco. Qui si era consumato il rito di iniziazione del giovane Fin Mecleod poco prima di partire per l’università.
L’An Sgeir conserva segreti che la scrittura incredibilmente efficace di Peter May ci rivelerà con sapiente dosaggio. Segreti torbidi e crudeli non meno di quelli che Fin Mecleod ritrova sulla terraferma. Per anni custoditi nel silenzio dei cuori similmente al cadavere che ne L’uomo di Lewis viene rinvenuto sepolto maldestramente sotto la torba.
Tra un equilibrato alternarsi della narrazione in terza persona e flash back raccontati dalla voce del protagonista, la realtà delle cose si rivela nella sua oggettività. E tutto e tutti si riveleranno profondamente diversi da quel che apparivano non solo agli occhi di Fin Mecleod ma ai loro stessi occhi. La vita di Angus Macritchie, cronico disoccupato e bullo di Crobost, sempre coinvolto in risse da bar, ma capace di un gesto di sincera compassione nei confronti di un debole ridotto sulla sedia a rotelle a causa di una delle sue bravate. Il movente che spinge il suo assassino a ucciderlo seguendo il copione di un omicidio commesso a Glasgow qualche mese prima, e sul quale indagò l’ispettore Fin Mecleod. Persino il rito di iniziazione di Fin sull’An Sgeir, alla fine, assume un sapore così amaro da lasciare attoniti, sebbene sia sempre collegato all’omicidio di Angus Macritchie.
Questo gioco narrativo di smascherare i lati oscuri dell’animo umano e scombinare le certezze presunte si ripete anche ne L’uomo di Lewis dove si fa ancora più evidente e crudo il rapporto tra apparenza e realtà. Le cose non sono mai come sembrano. Sino al paradosso per cui un giorno scopri che tuo padre non è la persona che hai sempre conosciuto. Neppure il nome Tormod con il quale l’hai chiamato per quarant’anni della tua triste, trascinata vita. E il suo DNA è l’unico a Crobost, isola di Lewis, che abbia affinità col cadavere trovato sotto la torba.
Ma nei personaggi di Peter May c’è ancora la forza interiore di un’autocoscienza critica e di una pietas degli uni verso gli altri, non per un senso di riscatto o per facile retorica dell’amore fraterno. Qui, sull’An Sgeir, isola di Lewis, non c’è posto per la retorica. Natura e uomini convivono non più per la semplice sopravvivenza, piuttosto in un’unità inscindibile in cui non c’è spazio per la pretesa supremazia dell’uomo. E chi cerca di sottrarvisi o, peggio, di fuggire cade nella tela di causa-effetto che Peter May tesse sapientemente.