Disdegnavo senza troppe remore le proposte di rimpatriate all’insegna dell’anagrafe. Cosa potevano avere da dirsi persone che nella loro esistenza avevano condiviso al massimo l’anno di nascita? Ma quando giunse, inaspettato, l’invito a partecipare a una pizzata con i vecchi compagni delle elementari fu diverso. Quel senso di estraneità che puntualmente si presentava quando il designato della “classe di ferro” chiamava per raccogliere l’adesione alla cena, con tre portate a scelta, vino compreso, e seguito di karaoke, non si presentò. Quanti anni erano passati dall’ultima volta che li avevo visti? Che avevo parlato con qualcuno di loro? Trenta, almeno. La memoria vacillava a ricordare i nomi e a mettere a fuoco i volti dei compagni di classe, ma stranamente, chiunque fossero, tutti insieme avevano suscitato in me un inconsueto sentimento di affetto.
Il giorno fissato per l’incontro arrivò qualche mese dopo. La classe era numerosa, da generazione baby boom, e non fu facile neanche per l’intraprendente e determinata Simona rintracciare i trenta bambini che ne avevano fatto parte. Per quanto mi sforzassi di non dare troppo peso all’evento, una malcelata sensazione di ansia mi accompagnò per tutta la giornata. Ma cosa mi era venuto in mente ad accettare quella insensata proposta? Le nostre vite si erano separate tanti anni fa, non avevo la minima idea di cosa facessero ora, attraverso quale percorso. Eppure sentivo che dovevo partecipare, c’era qualcosa che, nonostante tutto, mi spingeva a riunirmi a loro.
Il luogo stabilito per l’incontro era la piazza del mercato del piccolo paese dove avevamo trascorso il periodo più lungo e più breve della vita, l’infanzia. Qualcuno stentai a riconoscerlo nell’aspetto fisico da uomo maturo, qualcun altro nel carattere. Come era possibile che quelle due bambine silenziose e introverse del primo banco, modello ineguagliabile per tutti i genitori della classe, fossero le stesse allegre e loquaci signore che ora mi sedevano affianco? Mauro, invece, era proprio come allora, timido e delicato, con quelle buffe fossette sul viso che suscitavano tenerezza. E che commozione scoprire che quel bambino dallo sguardo impaurito, allora quasi incapace di esprimersi, era diventato un uomo estroverso, affettuoso e indipendente! Qualcosa o qualcuno doveva aver modificato un destino che allora sembrava irrimediabilmente segnato. Nel complesso avevo davanti un campionario di casi tipici della società di oggi: diversi divorziati, qualcuno emigrato, molti preoccupati, dopo 25 anni, di perdere il lavoro…
«Ve la ricordate la maestra?», disse ad un certo punto Simona, interrompendo il flusso dei miei pensieri che rimbalzavano impazziti dal passato al presente. «Ci sarà anche lei stasera! Sono riuscita a rintracciarla dopo una lunga ricerca, ma alla fine un giorno, dopo l’ennesimo numero di telefono selezionato, ha risposto lei!». «Era bella la nostra maestra, alta snella, indossava sempre jeans attillati e ammorbidiva le sue labbra con un lucidalabbra trasparente», commentò allora Roberto, un ex bambino che insieme al fiocco e ai capelli, aveva perso evidentemente anche l’antico pudore.
La nostra maestra era la più giovane della scuola. A poco più di vent’anni era arrivata, fresca di concorso, nel piccolo paese alla periferia di Cagliari. «E il fidanzato che la veniva a prendere alla fine delle lezioni con la sua Giulietta grigia, ve lo ricordate?», continuò Roberto. Era un pilota di caccia bombardieri: un mito per tutti i maschietti della classe! Ma al fascino di quel ragazzo, che era biondo proprio come i tedeschi della vicina base Nato dove lavorava, non erano indifferenti nemmeno le bambine. La maestra era però una donna molto riservata, e non ci disse mai perché, ad un certo punto, la Giulietta grigia non apparve più di fronte al portone della scuola. Aveva anche l’aria di essere molto sicura di sé e noi eravamo davvero orgogliosi di lei. E io più di tutti. Le piacevano i miei temi. Prendevo il suo incoraggiamento come affetto e mi dava sicurezza.
Mentre ricordi che sembravano definitivamente sepolti riaffioravano, uno dietro l’altro, mi fu chiaro d’un colpo che proprio lei, la maestra, era il vincolo invisibile che ancora univa persone tanto diverse in un imprevisto cerchio di affetto e fratellanza. Non ci parlavamo da decenni eppure quei sentimenti si leggevano nella luce degli occhi che lampeggiava in ciascuno di noi e nondimeno erano imbarazzanti da esprimere.
«Sarà ormai in pensione», ipotizzò Graziella. «Ci riconoscerà?», pensai io. Mi sforzavo di attutire un’eventuale delusione ragionando sul fatto che se per noi era stata unica in tutti i sensi, il cosiddetto modulo (tre insegnanti per classe) sarebbe arrivato molti anni più tardi, di contro lei in tutta la sua carriera di insegnante doveva aver avuto centinaia di alunni.
Tutti i miei dubbi furono presto fugati. Vedendoci arrivare la maestra ci salutò ad uno ad uno, chiamandoci per nome. «Non siete cambiati molto», ci rassicurò infine. Lei invece era identica alle fotografie che ciascuno di noi conservava dove, alta, posava insieme alla classe. Stesso volto, poche rughe, stessi occhiali. Quel giorno però non ci sembrò più così alta, almeno non come la ricordavamo.
Ad un certo punto la danza dei saluti si interruppe. Allora la maestra, visibilmente commossa, guardandoci a turno negli occhi, ci disse: «Perdonatemi, siete stati la mia prima classe. Ero giovane e inesperta, ho commesso tanti errori. Ci ho ripensato spesso nel corso della mia carriera». Era dunque questa la ragione per cui aveva accettato di incontrarci tutti insieme, dopo tanti anni? Aveva bisogno di liberarsi di un peso? Questo pensiero ci attraversò un po’ tutti. Fu chiaro che il tempo trascorso aveva inesorabilmente invertito i ruoli. Lei poteva finalmente mostrare la sua fragilità, noi non potevamo più ripararci dietro l’esile ombra della sua rassicurante protezione. Realizzammo così che ad essere cresciuti eravamo stati noi.
Ci sedemmo a tavola, la maestra ci guardava e ci interrogava. Tre ore bastarono a darci l’illusione di non esserci mai persi di vista.
Morena