Stefano Boni “Homo comfort, il superamento della fatica e le sue conseguenze”
Elèuthera, 2014
Nelle ultime due settimane mi è capitato di vedere il film di Wim Wenders sulla vita del grande fotografo brasiliano Sebastião Salgado, di rileggere “Gli sdraiati” di Michele Serra, di assistere, il 6 dicembre scorso, alla presentazione a Elmas, a cura del Circolo dei lettori Equilibri, del libro di Stefano Boni “Homo comfort”.
Salgado, nel descrivere la vita della tribù amazzonica degli Zo’è, si chiedeva se il loro vivere in perfetta simbiosi con la natura, in perfetta comunanza di beni e relazioni tra pari, non sia “la vera felicità”. In fondo, dice Salgado “alla fine ho scoperto che tutto ciò che è essenziale per un gruppo etnico come gli Zo’è, che vivono come noi vivevamo, che ne so, ventimila o cinquantamila anni fa, è ancora l’essenziale per tutti noi: i rapporti di amore, i rapporti di idea di comunità, di solidarietà. Quindi, avrei tranquillamente potuto vivere in un gruppo etnico come quello senza alcun problema, senza alcuno fardello. Eppure, io venivo da una civiltà che è cinquantamila anni distante dalla loro. Comunque ho scoperto che anche dal punto di vista tecnologico, più o meno, hanno imparato le stesse cose: hanno gli antibiotici, gli antinfiammatori, che loro ricavano dalle erbe e dagli alberi…”
Proprio l’ultima fatica di Salgado, l’eccezionale album fotografico “Genesis”, che potremmo tradurre come un atto d’amore per la Terra, da cui bisogna ripartire per rinascere dalle guerre e dalle carestie, dalle conseguenti malattie e bibliche migrazioni (tragedie che il grande fotografo ha più volte documentato), sembra voler fornire una chiave di lettura verso un ordine nuovo tutto ancora da costruire.
C’è da chiedersi, per creare un legame tra le cose viste e pensate all’inizio del ragionamento: se dal punto di vista antropologico, l’uomo in fondo non è altro che il prodotto del suo rapportarsi alla natura, e se i bisogni primari sono sempre gli stessi, che senso ha il di più, l’ipertecnologia dilagante, il consumo per il consumo, il comfort fine a se stesso, la cultura dell’usa e getta e la conseguente obsolescenza programmata di prodotti da parte di multinazionali che immettono sul mercato merci secondo la logica del “nuovo e bello”. C’è da chiedersi chi trae vantaggio da tutto questo, chi governa queste logiche di profitto, chi le controlla e soprattutto quali sono i benefici di lungo termine per il sistema mondo. A molti di queste domande cerca di rispondere il libro di Stefano Boni, che pone al centro del suo ragionamento un assunto di fondo: negli ultimi 20/30 anni, con l’affermarsi dell’“Homo comfort” è in atto una mutazione culturale tale da trasformare l’homo sapiens/faber in un qualcosa di diverso.
Tale mutazione, secondo Boni, è tendenzialmente universale e sovranazionale, investe cioè tutti noi, prescinde da latitudini e diversità geografiche, tende a omologare e uniformare l’umanità in un unico modello ipertecnologico: lo sdraiato di Serra, con i suoi terminali elettronici, assomiglia sempre più a qualsiasi ragazzo giapponese, africano o kazaco.
La mutazione in atto si avverte nell’impoverimento delle capacità dei cinque sensi di rapportarsi “direttamente” con la natura da cui si è costantemente schermati, e la conseguente perdita di capacità artigianali tramandate da millenni; si avverte nella “mercificazione della natura e nella tendenza alla fatica comoda” (pag.125); si avverte in quello che Boni chiama la paura che si traduce in ecofobia, lo schifo per tutto ciò che è organico ed esserne immunizzati (pag.149).
Nella discussione appassionata che ha fatto seguito alla presentazione del libro, nei dubbi, interrogativi e critiche anche serrate alle teorie di Boni, non ci si è divisi in apocalittici e integrati, piuttosto sono emerse le diverse posizioni degli scientisti, dei positivisti, dei vegani, degli olisti, degli ambientalisti, dei marxisti, dei tecnocrati, accomunati dalla comune sensazione che si è a un punto di svolta, e che sia necessario un nuovo paradigma, un nuovo modello di sviluppo, concetto assai più ampio di quello di crescita economica.
Tra i due poli “non si può crescere all’infinito, il pianeta non ha risorse sufficienti” e “la scienza e tecnologia troveranno sempre il modo per farci crescere all’infinito” forse c’è spazio, nella crisi dei modelli produttivistici delle democrazie occidentali, del socialismo reale, delle stesse socialdemocrazie, per sperimentare comportamenti e modalità nuove in scelte individuali e di micro comunità che sfuggono e combattono contro quelli che Boni definisce i poteri allineati (alta finanza, banche, multinazionali, lobby e potentati politici e militari, sistemi giudiziari e investigativi nazionali e transazionali). Perfino quei partiti di massa, e i sindacati, che tradizionalmente rappresentano gli interessi dei lavoratori, si sono omologati al pensiero unico neoliberista e ipertecnologico.
In “Avere o essere?”(1976) Erich Fromm, nel capitolo IX (“Caratteristiche della nuova società”) sosteneva che “Occorre risolvere il problema di come continuare la produzione industriale senza ricorrere ad una centralizzazione totale, vale a dire senza sfociare nel fascismo vecchio stampo o, più probabilmente, in un «fascismo tecnologico dal volto sorridente”; e ancora “Bisogna combinare la pianificazione a tutti i livelli con un alto grado di decentralizzazione, rinunciando all’«economia di mercato libero», che del resto è ormai largamente fittizia…”
Se è vero che la Terra Promessa non esiste forse in questo “umanesimo radicale”, quello che secondo Fromm veniva preconizzato da Marx (“Manoscritti economico-filosofici del 1844), dal cristianesimo delle origini e dalle grandi filosofie orientali, c’è una possibile risposta ai tanti quesiti che il libro di Stefano Boni pone.
Tonino Sitzia
Dicembre 2014
Grazie Tonino!
Sei riuscito a toccare le questioni fondamentali con riferimenti variegati e pertinenti.
Un caro saluto,
Stefano