E’ appena uscito di Walter Piludu IL CUGINO COMUNISTA. Viaggio al termine della vita, CUEC Editrice.
Walter ricorda e racconta e leggendo rivedo, attraverso la memoria, i luoghi della nostra città. Le piazze delle manifestazioni, le vie dei cortei, le feste, le bandiere…
Rivedo quegli anni e vado considerando le discussioni e le lotte di quel tempo.
Nomi rievocano luoghi, e i luoghi rimandano ai nomi.
Così nella memoria si aggiungono ricordi personali oltre a quelli riportati nel libro.
Ci fu in piazza Yenne una manifestazione di solidarietà al popolo palestinese.
Era in quei giorni a Cagliari il poeta Rafael Alberti che parlò dal palco con Umberto Cardia.
Il poeta si esprimeva con una lingua mista di spagnolo, brasiliano e italiano: le sue parole diventavano immagini, e lui si scusò per questa sua lingua mista.
Fu, in un momento di rabbia e tristezza (il settembre nero in Giordania), un dono raro per noi ed io ancora lo tengo caro nella memoria…
Walter Piludu fa riferimento a questioni, a fatti internazionali che s’intrecciano con il lavoro e l’azione quotidiana del partito a Cagliari e nell’interland.
Il suo raccontare scorre pulito, senza incespichi. Sono anche gli anni della mia, più circoscritta e modesta, militanza nel PCI: anche perciò ho letto con interesse e con una venatura di malinconia il suo libro.
Di Walter ricordo la sua lealtà, la sua sincerità, la sua coerenza.
“Nell’89 cadevano le mie speranze politiche, tentavo la mia inutile resistenza, prendevo infine atto della mia sconfitta con la perdita del mio ruolo politico e del mio lavoro. Seguì la disoccupazione, la faticosa amara risalita per la ricostruzione di un’altra vita”. Così egli con poche, ma dense parole.
Nella prefazione, Tore Cherchi, tra l’altro scrive: “Riconosce che la funzione storica del PCI era esaurita e che la svolta era realtà necessaria sebbene mantenga intatta la critica al metodo praticato da Occhetto. Lui, Walter, peccò di idealismo e fece un grave errore politico…”
Parole pesanti -‘funzione storica del PCI’ (e il suo esaurimento); ‘necessità della svolta’ (la liquidazione del PCI). Poi il ‘peccato di idealismo’, ‘l’errore politico grave’; la fine del PCI, la sua entrata in agonia, è chiamata svolta e la svolta è, naturalmente, cosa necessaria. Tutto, così, si riduce alla critica del metodo praticato da Occhetto: la sostanza, dunque, è salva.
Ma è tutto chiaro, tutto così scontato, così consequenziale?
Il quesito era: continuare a esistere ‘rifondandosi’, oppure liquidarsi per divenire ‘altro’ -“La Cosa di Occhetto”. Qualche compagno, lasciandosi andare in chiacchere da bar, diceva che la ‘Cosa’ se la sentiva già nel didietro.
Se oggi guardiamo al risultato credo che l’esito non sia felice.
Comunque un bilancio andrebbe pur fatto.
Ancora dalla prefazione: “lo scioglimento del PCI fu un fatto inesorabilmente traumatico anche in Sardegna”, ma con rammarico dice Cherchi sarebbe potuta essere “un’occasione storica per fondare una forza sarda, autonomistica, della sinistra, distinta sebbene collegata con la nascitura, ancora informe, della nuova formazione politica della sinistra italiana”.
Dov’è oggi la sinistra sarda, dov’è la sinistra italiana, dove quella europea?
Mi torna in mente un passo de “La rivolta dell’oggetto” di Michelangelo Pira:
“Occorre una buona dose di ingenuità per considerare, ancora oggi, le connotazioni territoriali più importanti di quelle sociali, per privilegiare il dislocarsi dei gruppi sull’asse orizzontale dello spazio, anziché il loro dislocarsi sull’asse verticale della stratificazione sociale”.
Solo un forte soggetto di sinistra può coniugare l’aspetto autonomistico con l’elemento sociale attraversato dai conflitti.
Un libro di Guido Liguori, “La morte del PCI”, ricostruisce il dibattito di quella vicenda.
Siamo alla fine degli anni 80. Occhetto andava dicendo che non aveva più senso dirsi anti capitalisti, perché il capitalismo, in sostanza, non c’era più, o comunque era diventato qualcosa che non doveva essere contrastato…
Credo che bisognasse andare a vedere, approfondire, capire che cosa il capitalismo stesse diventando (più diffuso, più sfuggente, più finanziario…).
Con la svolta di Occhetto, l’enfasi nel dibattito culturale dentro il PCI si spostava sul trinomio democrazia-libertà-diritti a scapito dell’analisi del capitalismo, del suo potere che andava intaccando gli spazi della democrazia.
A scapito dell’analisi della composizione sociale dei ceti, delle classi, dello sfruttamento e dei rapporti di potere. Ossia “non un innesto, come era stato in passato, del discorso liberal democratico sull’impianto marxista e anti capitalista, ma una sostituzione del secondo con il primo”. Dunque una conversione (una svolta) del partito di Occhetto al credo liberal democratico.
Una domanda rimane attuale: è possibile lottare, battersi per una società libera non sovradeterminata dalla priorità del mercato?
Perché, mi sono sempre chiesto, intellettuali come Umberto Cardia non sentirono la necessità critica di intervenire sulle scelte politico-culturali di Occhetto? Possibile che il rinnovamento del partito, da tutti auspicato, mettesse la sordina al merito di tale cambiamento?
A Occhetto che nel 1989 affermava non avere più senso, più ragione un partito comunista, né dichiararsi anti capitalisti, Asor Rosa rispondeva: “I comunisti sono a favore di una visione radicale della liberazione umana? Si, lo sono, anzi esistono solo per questo; e se non lo sono, o non esistono o cambiano natura”. E Luciano Canfora: “Il capitalismo non soltanto è per sua natura anti egualitario (dunque antidemocratico), ma anche -come è noto- tende sempre più a mettere a riparo dagli organismi decisionali elettivi (parlamenti, ecc.) le decisioni cruciali che lo riguardano, e che riguardano la vita economica e produttiva dell’intera comunità”.
Tornando a “IL CUGINO COMUNISTA”, un’ultima nota.
Con tratti essenziali, a volte con tocco leggero, Walter Piludu delinea figure di funzionari, di esponenti politici, suscitando immagini, riandando a fatti, a rapporti personali, a vicende, a comportamenti.
Alcuni ne escono malconci: Walter non pronuncia giudizi, ma il suo laser ha definitivamente fissate tali figure. Però l’interrogativo lo pone: come “giudicare un esponente politico che, dopo aver avuto dal suo partito riconoscimenti, ruoli sociali e prestigio personale, al momento del necessario e fisiologico ricambio rompe per tentare un’avventura politica individuale?”
Altri, in certe pagine intense, si stagliano in tutta la loro umanità e dignità.
Penso anche alla fatica, del tutto particolare,che l’autore ha dovuto affrontare in questo lavoro portato avanti alle prese con la grave e inesorabile malattia.
Ecco per tutto quanto un grazie sincero a Walter Piludu.
Gabriele Soro