Ci sono molti modi di fidelizzare un cliente. Il marketing è un’arte sottile e di pazienza, fatta di piccoli gesti quotidiani, poco importa cosa si venda, l’importante è che si venda e che il cliente continui a comprare, non una, ma molte volte. Fedelmente.
Questo l’ho imparato dal clochard che siede, fedelmente, al suo posto ormai da molte settimane. Scendo la Rue Ferdinand Flocon, aspetto diligentemente il verde e attraverso la Rue Ordener ed eccolo, lui sta lì. Seduto tra la banca e il negozio di abbigliamento per bambini. Innocente metafora, lui, di quello che può il nostro moderno sistema capitalistico ed insieme immagine prospettica di come un bambino possa perdersi nel suo lungo viaggio nel bosco dell’età adulta. Una sorta di Pollicino che ha scordato di gettare i sassi fondanti la sua esistenza ed ora non sa più tornare indietro.
Lui sta lì con i suoi capelli bagnati dalle notti insonni e fredde, con la sua giacca che non trovava più spazio nell’armadio di chissà chi, i suoi pantaloni di velluto verde sporco. Non ha cartelli pietosi, ha una vecchia coperta ben ripiegata al lato, siede a gambe incrociate. Ha apparecchiato un tovagliolo dai colori dimenticati e su questo qualcuno ha buttato poche monete di rame.
Lui sta lì e quando qualcuno passa, quando io passo, non mi dice ‘ho fame ho sete ho freddo’. Per lui e per tutti noi è evidente che ha fame e sete e freddo. Perciò non servono cartelli e richiami.
Io non riesco a fare l’elemosina, non è per avarizia, ma perchè non sopporto il senso profondo di ipocrisia che mi invade subito dopo aver dato qualche moneta: ‘A cosa serve, che cosa credi di aver fatto, chi ti credi di essere, eh brava! Hai fatto la bell’azione quotidiana, ipocrita! La facile generosità borghese’. Queste sono, grosso modo, le frasi che rieccheggiano nella mia testa ad ogni lancio di moneta.
Il braccio mi resta rigido, blocca nella tasca quelle due monete che restano fredde, chiuse nel palmo della mano, chiusa a pugno minaccioso. Mi viene da pensare al sistema sociale, mi dico che è una merda, che lascia i suoi cittadini nella merda, penso che ci vorrebbero ben altre azioni, ben più complesse e strutturate che diano a tutti ègalitè, libertè.
Mi resta in sospeso il concetto di fraternitè, idea fascinosa di solidarietà collettiva e sociale, idea sempre bella, sempre bella e valida in tutte le stagioni, e che cambia infatti ad ogni stagione.
‘E allora gliele dai sté monete? O cosa devi fare? Le dai, non le dai? Resti o te ne vai?’.
Non riesco a risolvere il dissidio ed ecco che si sviluppa in me un sentimento altrettando odioso e contrario al precedente: la colpa, la negligenza, la mancanza, il peccato. Risalgono in gola i rigurgiti dell’antica educazione cattolica, quella che ormai credevo risolta. L’ancestrale colpa. Sono direttamente responsabile di questo crimine. Se Giove scaglia fulmini e saette, il mio Dio bambino lancia feroci sensi di colpa.
Il Sinistro pugno si stringe sempre più dolorosamente e mi spinge oltre, e quando la sequenza di questi pensieri è terminata sono ormai lontana dall’aver trovato una qualunque soluzione. Il clochard è alle mie spalle, io continuo la mia strada, vado al lavoro, a fare la spesa, magari incontro qualcuno che conosco e dico pure ‘buongiorno’. Continuo a vivere la mia normale esistenza, fatta di cose normali.
Ma Lui sta lì e quando io passo, non mi dice ‘ho fame ho sete ho freddo’, si vede che ha fame e sete e freddo. L’unica cosa che mi dice è ‘Bonjour, Madame’ e me lo dice con un sorriso schietto e squillante, me lo dice con tono da commerciante rivolto alla cliente appena entrata nella sua boutique di miserie, robivecchi d’umanità. ‘Posso aiutarla, Signora? – No, grazie, dò solo un’occhiata. – Se ha bisogno sono qui’.
E infatti lui è qui, sul marciapiede, nei miei pensieri, nel mio mondo strutturato, efficace, efficiente, normale. Lui con la sua anormalità entra prepotentemente nella mia normalità.
Stamattina ho ricevuto una mail da un’amica, che frequenta un corso di meditazione trascendentale. Lo frequenta a Cagliari, dove lo Scirocco, quando arriva carico di deserto, porta una buona dose di solitudine e malessere, ansia e prostrazione e allora per scaricare il peso di questo malvivere, Maria frequenta corsi di meditazione. Compra tutto il pacchetto: training autogeno, discesa a zero e sogni guidati (che mi dice facciano riemergere incubi sopiti profondamente), e in questo vortice vive e rivive la sua separazione, la difficile organizzazione della vita sua e dei suoi figli, le relazioni che non legano, i colleghi rabbiosi, il lavoro noioso, l’altalena che la sbalza dall’alto verso il basso, in una discesa a zero senza soluzione di continutità, senza soluzioni.
Cosi dall’isola mi arriva via mail il suo vento di frustrazione, quasi come se Maria facesse fare al maestrale il viaggio al contrario. Il male che lei vive a sud, lo trasforma in vento freddo e secco e me lo invia via mail.
Il risultato di questa trasformazione sono una serie di storie di saggi zen, monaci buddisti, aneddoti, che con le loro perle di saggezza dovrebbero illuminare gli oscuri angoli della sua esistenza e che hanno come sicuro effetto di oscurare i miei tentativi di capire il mondo. L’ultima mail racconta del poeta Rilke che nel suo soggiorno a Parigi, mentre si reca all’università percorre tutti i giorni la stessa strada e tutti i giorni incontra una triste mendicante, seduta sempre al solito angolo di strada. L’amica che lo accompagna dà qualche moneta ogni tanto, Rilke mai, suscitando lo scandalo della sua accompagnatrice, che lo rimprovera della sua avarizia. Me la figuro questa gentile francesina e squilla nel mio orecchio il suo “Mais Monsieur Rilkè, mais ce n’est pas possible !!”
Ma Rilke è saggio, non vive le mie frustrazioni, lui non dà perchè è vinto dai sensi di colpa, lui non dà perchè sa che la povera infelice ha bisogno di ben altro che non qualche ‘pieces’. Lei ha bisogno del nutrimento dell’anima e cosi le dona una rosa, una rosa appena sbocciata. Scocca vibrante questa immagine nella mia testa, vibra del rosso vellutato dei suoi petali, del brillìo delle gocce di rugiada, appena intiepidita dai primi raggi di sole. Facile immaginare la commozione della clocharde in questione, che bacia riconoscente la mano del Poeta e che subito dopo si alza e se ne va estatica stringendo il gentil dono tra le mani. E scompare, non la si vede più.
Ritorna dopo una settimana, ha ripreso il suo angolo di strada, la sua postura questuante, la sua tristezza. Con il senso pratico che contraddistingue i francesi, l’amica del poeta si chiede ‘Ma di cosa avrà vissuto in tutto questo tempo?’, il Poeta, il Saggio, risponde senza esitazioni: ‘Della rosa’.
Resto invischiata in questa nube decadente da fine ottocento e quando ancora sto cercando di uscirne e di trovare una risposta al mio dissidio arriva la domenica delle palme.
Io non lo so che è la domenica delle palme, semplicemente esco di casa per fare la spesa, scendo la Rue Ferdinand Flocon, attraverso la Rue Ordener, e come al solito incontro il mio clochard, che non è triste, ma mi saluta sorridente come ogni mattina, io abbasso il capo in segno di risposta, il mio pugno si stringe e chiude monete e pensiero, passo oltre e arrivo sulla piazza Jules Joffrin. E lì ho la rivelazione: è la domenica delle palme. Un nugolo di donne ha allestito dei banchetti alla bene e meglio, in cambio di un’offerta, offrono graziosi rametti di palma. Mi torna in mente la rosa di Rilke, niente di più facile. Mi sento felice, all’improvviso risolta nel mio dissidio, scambio un euro per un rametto con una simpatica signora dalla pelle rosa e le guance rosse e torno dal mio clochard.
Mi abbasso verso di lui, gli sorrido e per la prima volta gli rivolgo la parola:
– “Bonjour, Monsieur le Clochard” – E gli offro la mia rosa.
Il ‘Monsieur Clochard’ smette di sorridere, mi diventa all’improvviso triste e ho l’impressione che questa sua tristezza sorprenda tanto lui quanto me. Per la prima volta vedo nel suo sguardo tutta la miseria e la disperazione della sua esistenza, cosi grandiosa e maestosa che annulla tutto ciò che prima d’allora avevo creduto essere la sua esistenza.
– “Madame” – Mi dice e mi prende la mano che stringe il rametto di palma -“Vous n’auriez pas quelques pièces. J’ai faim, ça fait deux jours que je ne mange pas”.
Un odore forte ed acre sale dal suo corpo e mi parla di lunghe notti untuose a rottolarsi in coperte recuperate ai cassonetti, sopra marciapiedi umidi di pioggia calpestata. Non sa di rosa questo suo miracolo, sa di piscio e di cadavere prossimo alla dispersione. Di miracoloso c’è solo il mio stupore, la mia ingenua fedeltà nella salvezza eterna. Eterno è il suo odore, questa sua sofferenza di fame e di sporco che mi sbatte in faccia. L’assurdità però non è lui, ma il mio stupore: ‘Mais madame, j’ai faim’, che cosa c’è di più evidente?
‘Che me ne faccio io della tua rosa? Che cosa mi dai? Dammi una moneta e dammi un pò di speranza istantanea, che io possa scioglierla subito nelle vene, che la tua fede nella vita io l’ho già persa stanotte dietro quell’angolo di strada. Alla tua colpa pensaci tu, che io ho già la mia e ce l’ho tutta in questo fazzoletto di terra dove sto seduto, non l’hai visto che è vuoto?’.
Mi slaccio dalla presa della sua mano e infilo la mano a cercare qualche moneta in tasca, gli dò quello che trovo, oro e rame insieme, ma lui non tende la mano e allora lascio tutto sulla sua tavola. Mi alzo e me ne vado.
Il mio clochard è scomparso. Non siede più tra la banca e il negozio di abbigliamento per bambini. Non credo che tornerà, perché si è completamente trasformato, è un altro ora che siede al suo posto e quest’altro, è vestito allo stesso modo, ma è triste e tiene bassa la testa, non sorride, non saluta ed ha un cartello, che domanda pietà. Esplicitamente.
Devo ricominciare tutto daccapo e quando ripenso al mio ‘Monsieur le Clochard’ mi chiedo ‘Ma di cosa vivrà?’.
Carla Cristofoli