18 Dicembre 2024
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“I Benjamin. Una famiglia tedesca” di Uwe-Karsten Heye (Sellerio 2105) – Recensione a cura di Tonino Sitzia

Capita, a volte, leggendo più libri contemporaneamente, che si creino delle assonanze o delle simmetrie, come se essi si animassero e tra essi si sviluppi un dialogo. I libri, allora, cominciano a parlarsi e pur essendo di per sé degli oggetti inanimati, si fanno materia viva attraverso l’immaginazione del lettore, che viaggia oltre i contesti spaziali o temporali.
Stavo rileggendo “Notturno cileno” di Roberto Bolaño , inquietante e straordinaria parabola sugli anni bui della dittatura di Pinochet, e contemporaneamente il saggio di Uwe-Karsten Heye
sulla storia drammatica della famiglia Benjamin, altra parabola sugli anni bui del nazismo e della traumatica divisione delle due Germanie.
A proposito del suo romanzo Bolaño dice “In Notturno cileno ciò che mi interessava era la mancanza di senso di colpa di un sacerdote cattolico. La freschezza ammirabile di qualcuno che per formazione intellettuale avrebbe dovuto sentire il peso della colpa. Io credo che la colpa, il senso di colpa, è una delle poche cose buone della religione cattolica. Mi è sempre sembrata un’entelechia pseudo-dionisiaca quella dell’uomo libero dalla colpa. In questo senso, ovviamente, sono totalmente contro Nietzsche. Vivere senza colpe è come vivere fuori dal tempo, in un presente perpetuo, in un carcere di soma, o come si chiamava la droga che prendevano in Il mondo nuovo, di Huxley. Vivere senza colpe è abolire la memoria, perpetuare la codardìa. Se io, che sono stata vittima di Pinochet, mi sento colpevole per i suoi crimini, come può non sentirsi colpevole chi fu su complice, per azione od omissione?”
Coperina I BenjiaminDella rimozione della colpa, che è in sostanza la rimozione della memoria, si occupa il libro di Uwe-Karsten Heye, giornalista, autore di discorsi per Willy Brandt, portavoce del governo di Gerhard Schroeder e autore di testi per le reti televisive tedesche. In esso si racconta la storia dei Benjamin, la famiglia ebraica berlinese di Walter Benjamin, uno dei massimi intellettuali del Novecento, morto suicida nel 1940 nel piccolo paesino spagnolo di Portbou al confine con la Francia, per sfuggire alla cattura da parte della Gestapo.
Se di Walter Benjamin si sa quasi tutto, poco sappiamo della sua famiglia. Michael, il nipote che Walter non poté mai conoscere, parla delle origini dei Benjamin “progenitori dalla parte del nonno erano ebrei venuti da Occidente, che per sfuggire all’Inquisizione avevano lasciato la Spagna e il Portogallo e, attraverso i Paesi Bassi, erano arrivati in Renania e in Vestfalia”.
I Benjamin furono dapprima vittime del nazismo, poi della traumatica divisione della Germania in Repubblica federale tedesca (Rft Germania Ovest) e Repubblica Democratica tedesca (Rdt Germania dell’Est), e soprattutto della mancata denazificazione nella Rft, in cui, dopo la guerra e fino alla fine degli anni degli anni ’60, molti gerarchi, giudici, militari, medici, economisti, chiaramente collusi col regime hitleriano o esecutori dei suoi crimini efferati , rioccuparono tranquillamente i loro posti come se nulla fosse successo.
La rimozione della colpa e la perdita di memoria, riguardante nello specifico la Repubblica federale tedesca nel lungo dopoguerra, ha che vedere con la mancata assunzione di responsabilità rispetto alla tragedia del nazismo e della Shoah.
Emblematiche le parole pronunciate da Hannah Arendt che tornò a visitare per la prima volta la Germania nel 1950 (ora in Hannah Arendt “Ritorno in Germania”, Donzelli) e che l’autore cita (pag. 257) “La vista offerta dalle città tedesche distrutte e la conoscenza dei campi di concentramento e di sterminio hanno proiettato sull’Europa un’ombra di profonda tristezza…e tuttavia, da nessun’altra parte questo incubo di distruzione e paura è meno sentito, e in nessun altro luogo se ne parla meno che in Germania”
Il libro di Uwe-Karsten Heye si sofferma in particolare sulle figure di Georg, fratello minore di Walter, pediatra e dirigente comunista, morto a Mauthausen nel 1942, della sorellina Dora, sociologa e attivista, e di Hilde Lange moglie di Georg.
Ripercorrendo le vite di questi personaggi, non solo si fa luce su una parte della storia tedesca, e dunque europea, in parte rimossa, ma si rende spessore e dignità a persone le cui vicende meritano di essere conosciute. Ciò vale soprattutto per le “storie di donne” in generale, e “di queste donne” in particolare, rimaste all’ombra del famoso fratello e cognato.
Dora, prima della presa del potere di Hitler nel ’33, collaborò da giovane con Georg nel gestire l’ambulatorio pediatrico rivolto al servizio dei bambini di Wedding, il quartiere rosso di Berlino, il più povero e problematico. Nella sua tesi di dottorato in Scienze politiche affronta il tema della “Condizione sociale delle operaie berlinesi occupate nel settore della confezione, con particolare riguardo all’allevamento dei figli”. “Lavoro, maternità ed educazione”, argomenti ancora oggi di attualità: Dora sperava di emigrare negli Stati Uniti per continuare le sue ricerche, come suo fratello Walter, con cui visse in esilio a Parigi fino al luglio del 1940, per poi vivere, sempre da esiliata, in Svizzera, dove sarebbe morta nel 1946.
La figura centrale del libro è forse quella di Hilde Benjamin, moglie di Georg, e madre di Michael, il bambino mischlinge “meticcio” (in quanto di nonno ebreo), che ella difese strenuamente dalle discriminazioni razziali. Il bambino, la sua crescita e i suoi progressi, sono oggetto principale del commovente epistolario tra Hilde e il marito in carcere, fino alla morte di Georg a Mauthausen.
Hilde fu madre ed esponente politico di rilievo della DDR, di cui fu vice presidente della Corte suprema fino al 1953 e poi Ministro della Giustizia. Quando i sovietici gli affidarono il compito del riordino del sistema giudiziario nella Repubblica Democratica Tedesca, lei, comunista e idealmente convinta in una nuova società antifascista e democratica, si mise a lavorare con la serietà che l’aveva sempre contraddistinta da quando, giovane e agguerrita studentessa di giurisprudenza,dopo la laurea si era dedicata al suo tirocinio di giurista presso l’ufficio assistenza del tribunale dei minori e nel carcere femminile nella Berlino di Weimar.
Nel dopoguerra Hilde si assunse la responsabilità di processare e escludere da pubblici uffici e magistratura della nuova DDR quanti avevano collaborato col regime nazista. Fu lei a istituire i Volksrichter i “giudici del popolo” che potevano amministrare la giustizia e avvicendare quei giudici o funzionari collusi col regime hitleriano e che la giustizia borghese non aveva saputo o voluto avvicendare.
Per questo suo scrupolo morale venne denigrata ad est, dove veniva guardata con diffidenza e definita “la russa”, e soprattutto a ovest, dove veniva sbeffeggiata come “Hilde la sanguinaria” o la ghigliottina rossa“. La torbida atmosfera della Guerra fredda, il pericolo comunista ad est, la deriva autoritaria nella DDR, coinvolsero anche Hilde Benjamin, la cui ponderatezza e rettitudine morale vennero scambiati per furore ideologico. Resta il fatto che mentre la DDR, senza nulla togliere alle critiche alla via prussiana al socialismo che portò alla Stasi, fece i conti col proprio passato, nella RFT ” ancora nel 1959 la metà dei funzionari con mansioni direttive era costituito da ex membri delle SS o di unità speciali della polizia, i quali erano stati coinvolti in uccisioni di massa oltre il confine del fronte in Russia”.
Il destino di Dora Benjamin è parallelo e comune a quello di Fritz Bauer nella Repubblica Federale Tedesca. Al ritorno dall’esilio, anch’egli giudice e giurista, combatté perché i crimini nazisti fossero riconosciuti e perseguiti. Il suo nome è legato all’arresto di Adolf Eichmann: diffidando della capacità e volontà del proprio paese di arrivare al suo arresto, Bauer rivelò ai servizi segreti israeliani il luogo in Argentina dove si trovava il criminale nazista, venendo così ad essere accusato di tradimento (è di questi giorni nelle sale il film “Lo stato contro Fritz Bauer” di Lars Kraumer).
Libro complesso quello di Uwe-Karsten Heye, libro di memorie pubbliche e private segnate dal sanguinoso e terribile Novecento, utile esercizio del ricordo, oggi più che mai necessario col risorgere dei nazionalismi e con l’ondata dei movimenti xenofobi e di estrema destra che attraversano come un incubo l’Europa.

Tonino Sitzia
Maggio 2016

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1 commento

  1. C’è anche un senso di colpa, così diffuso da sembrare innato, che si afferma con il cristianesimo e che le gerarchie della religione cattolica alimentano.
    Estrapolo da un articolo di Claudio Canal uscito nel ‘manifesto’ del 7 luglio 2011:
    “Un essere umano segnato dal peccato e dalla vergogna è perciò incapace di decidere cosa sia meglio per lui e per gli altri, sempre in attesa di una autorità che glielo dica e che pratichi il bene al suo posto e, magari, contro di lui. Un’autorità sacerdotale o politica, fa lo stesso.”
    Forse occorre far distinzione fra senso di colpa e memoria…

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