Ci avevano sistemato in quel grande capannone prefabbricato in un eterogeneo guazzabuglio di parallelepipedi di vario formato e colore.
Il locale, costantemente in penombra, era freddo d’inverno e caldo d’estate. Nessuno veniva a farci visita, tranne un giovane che periodicamente apriva una scricchiolante porta metallica da cui faceva passare altri parallelepipedi che venivano sistemati disordinatamente tra gli altri.
Nessuno tra noi conosceva il vicino, ma c’era qualcosa che ci accomunava: tutti noi avevamo un filo che sporgeva dai nostri corpi e che, poggiando sul pavimento, andava a lambire altri fili, come delle mani che volessero toccarsi. Quel filo alimentava un motore che produceva un sibilo appena percettibile, era il nostro respiro. Quello era il filo della nostra vita, era quello che ci animava e dava un senso al nostro esistere.
Ma c’era dell’altro che ci accomunava: innanzi tutto un comune destino, il parcheggio nell’anonimo capannone, la forma dei nostri corpi, e una sensazione sgradevole di declassamento.
Eravamo passati dalla condizione di ELETTRODOMESTICI a quella di ELETTRODOMESTICI DA ROTTAMARE. Perlomeno questo era quanto avevamo capito dalla scritta che campeggiava all’ingresso del capannone. Quel verbo aveva deciso la nostra sorte, ma noi non ne capivamo il senso, tutto interno alle logiche degli uomini. Quel filo vitale non ci avrebbe mai più animati e ci avevano buttato qui dentro per avviarci ad ignota destinazione, come dei qualsiasi ferrivecchi. Eppure nessuno di noi era un ferrovecchio, avevamo qualche piccola ammaccatura, è vero, qualche graffio quasi invisibile nelle nostre bianche livree smaltate, i nostri organi interni, fatti di scomparti di plastica dura grandi e piccoli, a parte qualche filatura, erano intatti.
I padroni del capannone ogni tanto entravano e, nel loro linguaggio cifrato, parlavano di “difetti di fabbricazione incompatibili per il mercato”, altri, più modestamente vestiti, si affacciavano di tanto in tanto e commentavano “ma cumenti si fait? Est tottu arroba noba e ci d’olint fuliai”…oppure “oi est tottu usa e getta…”ma calli usa getta…! Custa mercanzia non esti stettia mai usada…”.
Tutto procedeva come un ineluttabile destino. Periodicamente entrava qualcuno, depositava qualche nostro vicino su un carrello e veniva portato via.
Un bel giorno, però, accadde l’imprevedibile.
Tre di noi, io compreso, fummo spostati in un angolo del capannone, lontani dal gruppo di nostri simili. Uno di noi era decisamente più alto, spiccava come un patriarca ed era lievemente ammaccato sul lato posteriore, mentre io e il mio vicino eravamo più bassi e larghi, quasi della stessa altezza, insomma due gemelli. La nostra livrea era di un bianco smagliante.
Ricordo che era appena cominciato l’autunno quando alcuni signori vennero a visionarci. “Questi sono tra i migliori che abbiamo” disse il tipo che apriva a volte la porta. “Effettivamente questi potrebbero fare al caso nostro, si tratta solo di ripulirli, togliere le parti inutili e poi torneranno a nuova vita”.
Capita spesso nella vita che non sappiamo cosa ci può accadere, qualcuno o qualcosa decidono per noi. Come le navi in balia delle correnti non riusciamo a invertire la rotta e ce da chiedersi se non sia meglio essere ignari del proprio futuro…Non era il nostro caso. Ci ponevamo mille domande. Perché eravamo stati accantonati in un angolo del capannone? Perché proprio noi tre? Chi erano quei signori che sembravano così tanto interessati a noi? Volevano cambiare la nostra condizione?
Le cose, più veloci delle domande che ci stavamo ponendo, precipitarono. Il giorno dopo arrivarono nuovamente quei signori, puntarono dritti verso di noi e ad uno ad uno ci misero nel solito carrello. Neanche il tempo di guardarci indietro, di osservare i nostri simili abbandonati nella penombra del capannone, ed ecco la luce. Fummo sistemati uno di fianco all’altro in uno spiazzo dove era pronto un mezzo, un furgone come dicono gli uomini, e subito caricati dentro.
Il ronzio del motore non durò a lungo, segno che facemmo pochi chilometri e ci ritrovammo all’ingresso di una casa. Si aprì un grande portellone e dopo breve scivolo, a due metri dal piano stradale, ecco la nostra nuova sistemazione.
“Per ora lasciamoli qui nello scantinato…poi tra qualche giorno compriamo quanto ci serve e cominciamo i lavori”, disse uno del gruppo. Il locale era molto ordinato, file di scatole segnate da scritte di riconoscimento, una rastrelliera con tanti attrezzi, un tavolo, una finestra semiaperta che dava ad un giardino da cui veniva un delicato profumo di fiori. Molto meglio dell’oscuro e arido capannone.
Dopo due giorni la grande bocca si aprì e arrivarono gli stessi uomini del furgone. Avevano una maglietta con una misteriosa scritta: VPL.
Cominciarono ad armeggiare su di noi. Ci privarono delle nostre parti vitali, degli scomparti di plastica all’interno del nostro corpo, ci diedero una bella sciacquata e si salutarono: “domani cominciamo i lavori”.
Ormai eravamo in balia di quegli uomini. Privati di tutti i nostri attributi identitari aspettavamo rassegnati di capire “cosa” saremmo diventati. Avremmo perso completamente i nostri connotati? La nostra forma di eleganti parallelepipedi sarebbe diventata altra forma, a piacimento dei VPL? Non ci fu dato molto tempo per ragionare, solo una lunga notte in penombra, perché il giorno dopo i VPL arrivarono. Erano in quattro, scherzavano tra loro, e sembravano ben organizzati: due grattarono la nostra superficie, e già questo era per noi sconcertante, perché la livrea bianca, il nostro colore, sembrava una delle poche cose da salvare, poi gli altri due cominciarono a verniciare di un blu intenso i nostri abiti. Devo riconoscere che quel colore non mi dispiaceva affatto e cominciavo a intuire che oltre alle apparenze sarebbe cambiata anche la funzione per cui eravamo stati concepiti.
A lavoro finito i VPL sembravano molto soddisfatti. “Ora siamo pronti” – dissero in coro – dobbiamo scegliere il luogo e la data dell’inaugurazione”…”a questo punto possiamo pensare ad un giorno di dicembre, magari sotto natale…”
Ricordo tutto con precisione: il 23 dicembre ci caricarono nel furgone e ciascuno di noi fu dislocato in un punto preciso del paese. Neanche il tempo di salutarci e fummo separati per sempre.
Per primo, a ridosso del muro che dava all’ingresso del mercato, venne sistemato il più alto di noi, il patriarca. Da dentro il furgone il portellone aperto consentiva, seppure a fatica, di capire cosa stava accadendo. I VPL aprirono delle loro borse e “questo primo gruppo di libri e riviste li sistemiamo qui – disse uno di loro”…ce ne stanno un bel po’ “– disse un altro. Così riempirono la pancia del nostro amico di piccoli e grandi parallelepipedi, definiti libri dagli uomini. Erano colorati e di diverso formato. Un tizio con una strana fascia tricolore fece un discorso che sembrava dare grande importanza a noi e alla nostra nuova condizione “devo ringraziare i Volontari per i Libri…questi frigo biblio saranno molto utili alla comunità…chiunque potrà prendere o lasciare un libro…scambiarlo, leggerlo sul posto o portarselo a casa…ora i frigo sono di tutti, sono stati riciclati per dare un servizio alla collettività…” Ci furono addirittura degli applausi e qualcuno scattava fotografie.
Poi i VPL sistemarono il mio gemello in una piazza del paese, proprio di fianco ad un bar molto frequentato. Infine io venni piazzato nella piazza della chiesa, quasi sotto il campanile. Anche qui ci fu un discorso, era forse il responsabile dei VPL…”Abbiamo definito questo progetto Scongeliamo la Cultura…i frigo destinati alla rottamazione si riciclano per fornire un servizio in più alla comunità…”
Devo dire che, dopo un primo sentimento di allarme e perplessità, dopo un certo rammarico per aver lasciato i miei fratelli, ora sono soddisfatto. Non è facile darsi una nuova identità, ma a poco a poco mi sto abituando a questa condizione inedita, sento di avere una funzione sociale, e mi consola la compagnia dello spilungone che mi fa ombra e mi protegge, e soprattutto dei tanti bambini che ogni tanto aprono la mia pancia e prendono i libri per consolarsi, per divertirsi e per migliorare se stessi.
Tonino Sitzia
(Il racconto è stato scritto per il Concorso “PromuoviAmo il Volontariato”, promosso da Sardegna Solidale, quale testimonianza di idee e proposte originali per la valorizzazione del lavoro volontario nei diversi campi del sociale, tra cui quello della Cultura. Dal 2015 i frigo-biblio sono stati sistemati in tre piazze di Elmas. Il I cittadini apprezzano l’idea e usano i frigo secondo lo spirito del bookcrossing: prendono e mettono i libri, nell’ottica dello scambio/dono)