18 Dicembre 2024
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Erling Kagge: “Il silenzio” (Einaudi, 2017) – Recensione di Tonino Sitzia

Mi avvicino prudente al semaforo tra la via Roma e il largo Carlo Felice. Sono sovrappensiero. Quando guido mi capita spesso. L’automatismo dei movimenti lo consente, rallentare, scalare di marcia, frenare, sbirciare l’alternanza dei colori nel totem in attesa della ripartenza.
Da lontano sento un rumore, un bum bum come di casse acustiche che si fa sempre più forte man mano che si avvicina. Un’auto mi si affianca. Ora il bum bum si fa assordante. Il tizio alla guida della Golf si nasconde dietro un paio di occhialoni scuri, batte nervosamente le mani sul volante e scuote la testa seguendo il ritmo della musica a palla che scaturisce forsennata dalla sua autoradio. Si gira a guardarmi e sorride beffardo quasi a dire “il mondo è mio e faccio i cazzi che voglio e anche se la mia musica non vi piace ve la sparo addosso”
Il silenzio fa paura, è un vuoto da riempire, e certo quel tizio non è un eccezione.
Erling Kagge, in uno dei capitoli del suo libro “Il silenzio. Uno spazio dell’anima” (Einaudi, 2017) riporta i dati di una ricerca condotta da ricercatori dell’Università della Virginia e di Harvard su un campione di volontari eterogeneo per sesso ed età (dai 18 ai 77 anni) che dovevano stare in silenzio da soli in una stanza dai sei ai quindici minuti. Tutti hanno dichiarato di aver provato disagio e fatica nel concentrarsi e quando i ricercatori, forzando l’esperimento, hanno chiesto se qualcuno fosse disponibile a qualcosa di forte, per esempio una scossa elettrica, pur di abbreviare i minuti di silenzio, oltre la metà ha premuto il pulsante delle scossa.
Il non saper stare soli con noi stessi era già stato intuito dai filosofi, e Pascal, nel Seicento, affermava “La disgrazia degli uomini proviene dal non saper essi starsene tranquilli in una camera”.
Kagge è stato ospite del recente Festival “Isola delle Storie” di Gavoi. Nella sua scheda biografica si legge “nato a Oslo nel 1963 è un esploratore norvegese, autore, editore, alpinista, avvocato, collezionista d’arte e padre di tre giovani ragazze. È stato il primo nella storia a raggiungere i “tre poli” – Nord, Sud e la cima dell’Everest. Durante queste spedizioni, ha sperimentato periodi estremi di silenzio – il più lungo è durato cinquanta giorni”.
Il libro di Kagge è stato presentato a Gavoi da Giuseppe Antonelli, docente di linguistica all’Università di Cassino, assieme a quello di Alessandro Zaccuri dal titolo “Lo spregio”, in cui il silenzio tra un padre e un figlio si fa tragedia, a significare come la parola silenzio sia multiforme e possa essere declinata e vissuta in tanti e diversi modi.
Nel suo libro, che è stato pubblicato in 33 lingue, ed è già un bestseller in Norvegia e in Italia, Kagge racconta di come rivolgendosi alle sue tre figlie, freneticamente alle prese con i loro smartphone e con le troppe cose fare, chiedesse cos’era per loro il silenzio e come rispondessero telegrafiche che era utile “quando si sta male”. Forse l’argomento meritava qualcosa di più. Successivamente, invitato a tenere una conferenza all’università di Saint Andrews in Scozia, su tema da lui scelto, mentre tutti si aspettavano il racconto di esperienze estreme in capo al mondo, scelse di parlare del silenzio. Le curiosità degli studenti si concentrarono sostanzialmente su tre domande: “Che cos’è il silenzio?”, “Dove lo si trova?”, “Perché è più importante che mai?” Da qui l’idea del libro.
Le risposte a queste domande sono racchiuse in 33 risposte.
Lo scrittore norvegese dedica poco spazio alla sua straordinaria esperienza dei 50 giorni di silenzio assoluto per raggiungere il Polo Sud (risposta 2) o la punta dell’Everest. Ci tiene a sottolineare che il silenzio non è un’esperienza estrema in situazioni estreme, non riguarda solo i grandi esploratori, i velisti che sfidano in solitaria gli oceani, alla ricerca del silenzio intorno a noi, ma vuole piuttosto approfondire il tema del silenzio dentro di noi, di cui c’è estremo bisogno oggi più che mai. Forse si tratta di una ricerca e una pratica più vicina a quella dei mistici, o dei monaci, ma nel suo libro ci tiene a precisare che essa è del tutto immanente: “Il silenzio arricchisce di suo. Possiede questa qualità intrinseca, esclusiva e preziosissima. È una chiave che ci consente di acceder a nuovi modi di pensare. Per me il silenzio non è un abbandono, non è qualcosa di spirituale, bensì uno strumento pratico per arricchire la vita. È senz’altro un’esperienza più profonda che non accendere per l’ennesima volta il televisore e guardare il telegiornale”. Il silenzio lo si può ritrovare in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento della giornata perché “È possibile essere presenti al mondo e al contempo non esserlo…per me non hanno prezzo quei brevi istanti in cui osservo l’orizzonte e vengo catturato da ciò che mi circonda, oppure mi incanto a studiare un sasso tappezzato di muschio…(in risposta 21)
Il silenzio: un modo per guardarsi dentro andando per sottrazione e non per addizione. Meno denaro, meno oggetti da rincorrere ad ogni novità, meno uomini clientes, meno connessioni, meno carrierismo, meno sfruttamento di risorse umane e ambientali. meno affanno per una vita breve e fuggente.
Forse solo i poeti hanno conservato lo stupore del silenzio. Leopardi andava sul colle dove oltre la siepe “interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo, ove per poco il cor non si spaura…” e Erling Kagge (risposta 28) cita un breve componimento, un haiku di Matsuo Basho, poeta giapponese vissuto nella seconda metà del ‘600, a sottolineare come anche con le parole si può andare per sottrazione conservando il massimo della bellezza.
L’antico stagno!
La rana salta
con un tonfo nell’acqua

Recensione a cura di Tonino Sitzia

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