La demografia è una scienza noiosa: la lettura e l’interpretazione di numeri, grafici, diagrammi, proiezioni richiedono una pazienza che il moderno presentismo non ha. La geografia umana, così viene chiamata la demografia, ha tempi lenti, dunque sfuggenti alla quotidianità del giorno dopo giorno. Poi, all’improvviso, come quando si è scossi dal torpore o ci si sveglia di soprassalto, ci si accorge che, come un ribollire lavico annuncia un’eruzione, così l’umanità in movimento annuncia cambiamenti epocali.
Non si è riflettuto abbastanza, forse, sul fatto che le dinamiche demografiche hanno spesso condizionato i grandi sommovimenti della storia, a volte più delle scelte politiche, e che le risposte emergenziali, in forma di muri, respingimenti o blocchi, di tanti leader di ieri e di oggi hanno scarsissima possibilità di successo e sono destinate al fallimento.
Stephen Smith, giornalista di Liberation e poi di Le Monde, afferma esplicitamente nell’introduzione di questo libro, utile per tutti: “Ho evitato gli stereotipi – né omogeneità né meticciamento spesso presentati come ideali se non addirittura come imperativi morali”, piuttosto “Cercherò di determinare la capienza del serbatoio migratorio costituito dall’Africa e, nella misura del possibile, di prevedere la portata e le tempistiche dei flussi migratori in direzione dell’Europa”.
L’Africa aveva 600 milioni di abitanti alla fine della guerra fredda (1989), nel 2010 aveva superato il miliardo. Si stima che nel 2050 su una popolazione mondiale di circa 10 miliardi di abitanti il 25% saranno africani e nel 2100 su un totale di poco più di 11 miliardi, essi raggiungeranno il 40%: in sostanza l’Africa sarà sempre più la gioventù del mondo.
Smith focalizza la sua attenzione in particolare sul quell’ampia fascia geografica che comprende l’Africa sub sahariana laddove quei parametri di crescita demografica sono più evidenti e da dove partono i flussi migratori verso l’interno del continente e verso l’Europa.
In questa parte dell’Africa 28 paesi, secondo le proiezioni dell’ONU “entro il 2050 raddoppieranno la loro popolazione, e altri nove, Angola, Burundi, Malawi, Mali, Niger, Somalia, Uganda, Tanzania e Zambia, la quintuplicheranno. Riassumendo: da oggi al 2100 tre nati su quattro verranno alla luce a sud del Sahara”.
L’eccedenza demografica, che continuerà a crescere, avviene nonostante le carenze igienico sanitarie ben note: “la mortalità infantile è notevolmente diminuita ma, a causa dell’aumento della popolazione in cifra assoluta, è subsahariano un bambino su due che muoiono oggi nel mondo prima del compimento di un anno, mentre nel 1990 era uno su tre. La diminuzione del tasso di mortalità infantile non ha ancora comportato una diminuzione del tasso di fecondità di proporzioni comparabili. Parallelamente, la mortalità materna resta molto elevata: 546 decessi per 100.000 nati vivi, secondo i dati forniti dall’Unicef, a fronte di 4 su 100.000 in Francia”.
“A sud del Sahara, quattro abitanti su 10 non erano ancora nati il giorno del crollo dei grattacieli del World Trade Center…attualmente in Africa bambini e adolescenti ammontano al 40% della popolazione (4 su dieci).
Questi giovani vivono, secondo una pertinente affermazione dell’antropologo Marco Aime di una “globalizzazione zoppa”: non riconoscono più le antiche gerarchie ancora vigenti nelle aree rurali, si riversano in massa nelle città e, a fronte del paradosso che “In Africa si trova circa il 60% del totale mondiale delle terre fertili”, alimentano un inurbamento esponenziale e disordinato, dove coesistono grattacieli e capanne di fango, dove l’accesso facile a Internet permette ad essi di essere connessi col mondo dei ricchi, quelli che godono della globalizzazione integrale e verso cui aspirano di emigrare.
D’altro canto se l’Africa cresce demograficamente, l’Europa decresce, e secondo Le Nazioni Unite essa dovrà accogliere 50 milioni di migranti se mantenere l’attuale numero di abitanti e 80 milioni se vorrà stabilizzare la propria popolazione attiva.
Dunque c’è bisogno di giovani, e molti di loro, in un futuro prossimo, verranno dall’Africa, spinti dai cambiamenti climatici, dalla desertificazione, dalle guerre.
Stephen Smith, a pag. 33, richiama Thomas Malthus il vituperato autore del Saggio sul principio di popolazione (1798), “Un uomo nato in un mondo già occupato, se non può ottenere dai genitori la sussistenza che può giustamente attendersi da loro, e se la società non ha affatto bisogno del suo lavoro, non ha il diritto di pretendere la più piccola porzione di cibo e, di fatto, è di troppo in questo mondo. Nel grande banchetto della natura non c’è alcun coperto vacante per lui. Sicché la natura stessa gli ordinerà di andarsene…”
Dunque se in un mondo in cui, secondo l’ONU, “il 10% dei più ricchi della terra possiede la metà del patrimonio mondiale, mentre la più povera ne possiede il 10%”, per quanto tempo ancora la legge dell’iniquità, dell’ineguaglianza, del profitto, e di un capitalismo ormai vincente sul piano planetario possono essere tollerati dai dannati della terra? Per quanto tempo possono essere esclusi dal banchetto della natura?
Smith non indaga troppo sulle cause strutturali delle emigrazioni, non si schiera né con i sovranisti che soffiano sul fuoco dell’invasione dello straniero, né con i buoni sentimenti di chi ritiene che il problema non esista. Certo è che i dati aiutano a comprendere la complessità del problema e reclamano una capacità di governo da parte della Politica, che per ora non si intravede all’orizzonte.
Tonino Sitzia
Marzo 2019