Uno dei tanti murales a Santiago del Cile
A Puerto Montt, utima settimana di novembre 2019
Il cielo è limpido e luminoso quando lasciamo Chiloè per tornare a Puerto Mont, da dove prenderemo l’aereo che ci porterà a Punta Arenas, nel cuore della Patagonia.
Tra le curve della strada, all’orizzonte, fanno capolino le cime innevate dei vulcani Osorno e Calbuco, che dominano lo skyline di Puerto Montt, città portuale che si affaccia sul Pacifico, da cui partono le crociere per i fiordi verso il sud del Cile e da dove ha inizio la favolosa Ruta CH-7, la Carretera Austral, voluta da Pinochet per ragioni militari, che attraversa tutta la Patagonia Cilena, fino a diventare Ruta del Fin del Mundo, arrivando a toccare la punta più meridionale del continente americano, nella regione di Magallanes.
Passeremo una notte nell’Ibis di Puerto Montt, e la sera, mentre camminiamo su lungomare, da dove osservando l’increspatura delle onde si vedono affiorare delle foche in banda, assistiamo ad una delle tante manifestazioni che si svolgono in tutto il Cile contro il governo Piñera, e contro l’insostenibile situazione sociale del paese, alle prese, ormai da troppi anni, con le diseguaglianze, le ingiustizie, con la negazione dei diritti più elementari, quali istruzione e sanità.
“Chile despierto”, “No son 30 pesos, son 30 años” gridano i manifestanti, la gran parte studenti, alcuni encapuchados, mentre sfilano tranquilli sulla strada parallela al lungomare.
All’improvviso, come un onda sismica, il corteo è scosso da un correre all’impazzata di tanti manifestanti: i carabineros, con i loro blindati, le camionette, le macchine con idranti e gas lacrimogeni, irrompono sulla folla, che si disperde nelle vie secondarie. È un copione che si ripeterà in tutto il Cile, in questo novembre storico di mobilitazioni, assemblee, scioperi prolungati, incendi e distruzioni, a volte ingiustificate. È un copione che, per la brutale violenza dei carabineros, richiama un sinistro passato, il golpe del 1973, il fuoco della Moneda, la morte di Allende, gli arresti e le torture, i desaparecidos, la faccia imperturbabile di Pinochet dietro i suoi neri occhiali di assassino, lo stadio di Santiago pieno di inermi cittadini, la dittatura.
All’indomani sul presto attendiamo il bus che ci porterà all’aeroporto, in uno di quei terminal sudamericani caotici e ricchi di una umanità in movimento verso le diverse destinazioni del Cile, tra valigie, strilloni, venditori di tutto e di più. I pensieri sono già in Patagonia, ma nel profondo dei nostri animi resta la forte impressione, che ci accompagnerà per tutto il viaggio, di quanto accaduto il giorno prima.
Punta Arenas
Armati delle nostre buone letture, Coloane, Chatwin, Sepulveda, De Agostini, cercheremo di capire il perché del mito Patagonia. Cosa cercano tutti questi viaggiatori che come noi, nell’aeroporto di Puerto Montt, sono diretti a Punta Arenas? Dal loro allegro vociare capiamo che sono tedeschi, statunitensi, inglesi, francesi, scandinavi, italiani, cileni e sudamericani, seppure in minor misura. Dal loro abbigliamento, scarponi e pantaloni da montagna, felpe e calzettoni pesanti, cuffie, creme protettive dai raggi ultravioletti, bastoni da trekking, si capisce che in Patagonia la Natura non scherza, è capricciosa e mutevole, ventosa e fredda, e più si scende verso sud, vale a dire verso il Polo, più il clima si fa ostile. Dunque bisogna essere preparati. Poi la Natura ti ripaga: le Ande patagoniche, sia sul versante cileno che argentino sono una meraviglia e riservano panorami mozzafiato. Il loro fascino deriva dalla loro immensità, dall’alternarsi di steppa e foreste, di ghiacciai e laghi, di montagne che evocano sfide alpinistiche e tragedie, il Fitz Roy, il Cerro Torre, i Cuernos delle Torres del Paine.
Poi, al fondo di tutto, è questo voler andare verso la Fin del Mundo, questo ricercare gli estremi luoghi, questo andare into the wild, nelle terre selvagge, dove ritrovare, anche solo per un attimo, una propria dimensione o autenticità.
Forse è la stessa sensazione, unita al voler sfuggire alle crisi economiche e ricominciare da capo, che ha spinto tanti europei, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, ad emigrare verso il Sudamerica e seppure in Patagonia l’incidenza migratoria non è paragonabile a quella verso l’Argentina o il Brasile, diverse sono le comunità che qui, nel Cile meridionale, si sono stanziate.
Il Cementerio Monumental di Punta Arenas racconta questa storia.
Percorrendo i viali alberati del cimitero si notano, tra le umili tombe di avventurieri, marinai, cercatori d’oro, che sono vissuti e morti in questo angolo di mondo, le cappelle delle diverse comunità che sono approdate in questi luoghi nella seconda metà del XIX° secolo fino ai primi decenni del XX°, e che ne sottolineano il carattere multietnico: Svizzeri, Croati, Montenegrini, Italiani, Portoghesi, Inglesi, Scozzesi, Indiani, Spagnoli, Francesi.
Spicca tra esse la cappella della famiglia Menéndez, il cui capostipite Josè, di origini asturiane, era noto come El Rey della Patagonia, e quella di Sara Braun, moglie dell’imprenditore laniero José Nogueira, vissuti fra la fine dell’800 e i primi decenni del ‘900.
Le due famiglie, le cui sontuose residenze dominano la Plaza des Armas di Punta Arenas e sono visitabili, incrociarono i loro destini con i matrimoni dei loro rampolli e costituiscono il simbolo contradditorio di una colonizzazione spietata di queste terre.
L’allevamento delle pecore, il commercio della lana e della carne, gli immensi latifondi da loro acquisiti, come da altri europei, fecero la loro fortuna, ma comportarono lo sterminio degli aborigeni fuegini, spesso sottoposti ad autentiche cacce all’uomo, con la complicità dei governi cileni e argentini del periodo.
In queste terre e tra questi fiordi vivevano, da più di 10.000 anni in origine provenienti dall’Asia, le tribù dei Tehuelches o Aonikenk , degli Alakalufes, dei Selk’nam detti anche Onas , degli Yamanas e degli Haus. Costretti a passare dal nomadismo alla sedentarizzazione, forzatamente acculturati, aggrediti dal vaiolo e dalla tubercolosi a loro trasmessi dal contatto con i colonizzatori, gli indigeni scomparvero nel giro di pochi decenni.
Dal 2007 nel Parlamento cileno si discute se, sul destino dei Selk’nam e delle altre popolazioni native, si debba parlare di sterminio o genocidio. Se si riconoscesse quest’ultimo, oltre al “mai in prescrizione”, ci sarebbero il risarcimento materiale alle vittime e ai loro discendenti.
Cosa resta dei fuegini? Per i turisti le maschere colorate di rosso, bianco e nero, che richiamano i colori con cui i Selk’nam usavano dipingere il proprio corpo nudo nei momenti più importanti della loro vita comunitaria: consumo folclorico di una cultura scomparsa. Agli studiosi invece spetta il compito dello lo studio scientifico di questi popoli e della loro complessa storia, in parte rimossa, se non del tutto sconosciuta. Affinché almeno la memoria sia preservata.
Caiquén
E se ne vanno in coppia
da misterioso legame
uniti per la vita,
l’uno più grosso e fiero,
bianchi il petto e il collo
emerge nella steppa patagonica
a proteggere l’altra,
compagna fragile, umile
lo segue con la sua livrea
marron chiara e nero striata,
becchettando tra l’erba,
sospettosa di perderlo.
E se ne vanno accoppiati
non come fiamma biforcuta
ma a distanza breve
rispettosi dell’altrui spazio
e sapendo per istinto
che l’altro gli è vicino.
In quelle lande fredde
battute dal vento australe
vivono solitari
e allietano il deserto
con il loro amoroso
e continuo ricercarsi.
Puerto Hambre e Fuerte Bulnes
Una strada asfaltata di 60 Km, da Punta Arenas in direzione Sud, consente di raggiungere Fuerte Bulnes, avamposto cileno costruito a partire dal 21 settembre1843, quando la goletta Ancud, proveniente dall’omonima città della Isla Grande di Chiloè, approdava a Punta Santa Ana, nella regione antartica di Magallanes. La goletta era comandata dal capitano di fregata Juan Williams Wilson, marinaio britannico che aveva assunto il nome cileno di Juan Guillermos, la cui missione era stata voluta dall’allora presidente Manuel Bulnes a suggellare il possesso ufficiale del Cile su quelle inospitali regioni.
Le difficilissime condizioni climatiche del luogo costrinsero la guarnigione cilena ad abbandonare il forte dopo appena un anno e a trasferirsi in un luogo più riparato: punta arenosa, che nelle carte inglesi dell’epoca era chiamata Sandy Points, il primo nucleo abitativo di Punta Arenas.
Non ci sono mezzi pubblici che arrivano al Fuerte, per cui tramite un’agenzia locale prenotiamo un taxi che verrà a prenderci la mattina presto. Francisco ci tiene a dire che è mapuche, basso, scuro di carnagione, con grosse mani da contadino, viene a prenderci con il suo datato minivan, in una giornata che si annuncia fredda e piovosa. “En la Patagonia el clima es tan caprichoso e impredecible” ci dice. In effetti in breve tempo si possono alternare le quattro stagioni.
È un tipo ciarliero e gioviale, con lui attacchiamo bottone facilmente, nonostante la barriera linguistica.
Di che parliamo mentre scorre il paesaggio patagonico? Manco a dirlo della situazione del Cile, delle manifestazioni e delle proteste, del fatto che lui non sa quando andrà in pensione, ed è ormai sulla soglia dei sessant’anni, del fatto che i pensionati prendono una miseria, dei costi della sanità e dell’istruzione in mano ai privati, insomma Francisco sa da che parte stare e ritiene che quanto sta succedendo nel suo paese sia pienamente giustificato.
Francisco conosce bene i luoghi che andremo a visitare, ogni tanto ferma l’auto per sottolineare qualche particolare che non troviamo nelle guide.
La strada corre parallela alla costa che dà sullo stretto di Magellano, tormentata dai venti e dal mare in tempesta: lo si nota dalle tante imbarcazioni naufragate e qui spiaggiate, con il loro colori sbiaditi e con i loro scafi arrugginiti, da cui i gabbiani spiccano il volo per le loro inesauste evoluzioni, e su cui volteggiano gli albatros.
Dopo un’ora e mezzo di viaggio eccoci arrivati al Parque del Estrecho de Magallanes, gestito dal CONAF, la forestale cilena. Il parco, cui si accede con un ticket di entrata, comprende due siti considerati di interesse nazionale: Fuerte Bulnes e il Puerto del Hambre. Il primo, di cui si è già fatto cenno, fu restaurato tra il 1943 e il 1949 sul modello esatto di quello originario del 1843. Oggi sono visitabili la caserma, la prigione, le batterie nord e sud, la cappella, le stalle, e le palizzate che delimitano il perimetro.
Situato a due km da Fuerte Bulnes, Puerto del Hambre è legato ad una delle più tragiche vicende della colonizzazione spagnola. La storia in breve: nel 1584 Pedro Sarmiento de Gamboa, a capo di una spedizione di 15 navi e 4000 uomini, era stato inviato dal sovrano spagnolo Filippo II a prendere possesso di quei territori, così da controllare lo stretto, che era ormai diventato un luogo strategico per le mire espansionistiche di tutte le potenze europee, e infestato dai pirati.
Le tempeste antartiche ridussero la flotta di De Gamboa a cinque navi, poi ridotte a tre, infine a una. Delle due colonie da lui fondate, la Nombre de Jesús, e la Rey Felipe, la prima venne abbandonata, nella seconda, i 300 uomini della guarnigione, privi di sostentamento, isolati in un luogo inospitale e inadatto all’agricoltura, morirono di stenti e di inedia. Da qui il nome “Puerto del Hambre”, il Porto della fame.
Nel Parque del Estrecho de Magallanes oltre alla visita al Fuerte e al Museo, che contiene materiali multimediali sulle esplorazioni geografiche in Patagonia nei secoli, materiali che illustrano la presenza umana nel territorio prima dell’arrivo degli europei, si può percorrere il Bosque del Viento.
Attraverso un sentiero di Coigües de Magallanes (faggio), modellate dal vento, si raggiunge un mirador da cui si domina un panorama unico sul paesaggio circostante e sul mare, laddove i due Oceani si incontrano.
Tonino Sitzia
Grazie Tonino, reportage interessantissimo!
Un viaggio dentro la maestosità della Natura e non solo…