Leggo “I nuovi poveri” di Giampiero Rossi su “La lettura” di domenica 3 maggio. Non intendo fare alcuna ‘recensione’: bisogna solo leggerlo, consiglio di farlo. Mi auguro siano in molti. Riporto solo alcune righe dell’incipit. Poi seguiranno mie considerazioni – mentre penso alla ricca e prospera Milano – su ricchezza e povertà senza riprendere l’articolo di Rossi.
“I clochard sono rimasti soli. Il centro disertato della città è tutto per loro. Tende, sacchi a pelo e ripari di cartone sono sistemati nei soliti anfratti ricavati a pochi metri dal calpestio frenetico dei milanesi […] i senza tetto si ritrovano padroni assoluti anche dello spazio circostante. Se possibile, ancora più poveri di speranze. Perché le probabilità che qualcuno aggiunga una moneta al loro capitale di giornata sono quasi inesistenti. E non si può contare nemmeno sul buon cuore di un barista. Non c’è nessuno, intorno”
Ma che società è mai quella che, ricca e prospera, genera povertà in espansione. Ma che società è quella nella quale la Caritas e altri centri di aiuto volontari divengono permanenti, perché permanente è la povertà. Una società nella quale solo forme, più o meno strutturate e storiche, di ‘elemosina’ ancora la tengono, traballante, in piedi. Una verità semplice, ma sempre rimossa come se fosse cosa ‘naturale’, è che questa società – mercantile, dove tutto, e oltre le cose, è ridotto a merce, dove tutto è profitto – non può strutturalmente, per sua intrinseca natura, assicurare a tutti un lavoro dignitoso e stabile. Questa verità, semplice e aspra, è che la società capitalistica non può eliminare la disoccupazione. Il costo non appariscente e acre di questa situazione sono le umiliazioni, la dignità logorata di una massa sempre crescente di persone, di cittadini. E allora le Caritas, i centri San Vincenzo e i tanti altri centri di aiuto volontari tendono a diventare da strumento il Fine – dato il permanere della povertà, anche con punte estreme di miseria. Tante volte ho visto la gioia, la soddisfazione – invece che un proporsi pensoso, ripiegato – di chi da, di chi aiuta. Se io che possiedo, do a chi non ha e non può ed è costretto per sopravvivere a stendere la mano, dovrei anch’io, guardando e immedesimandomi nell’indigente che chiede, sentire tutta la sua umiliazione, dunque a mia volta sentirmi umiliato in questo rapporto. Invece chi aiuta, anziché turbato, si sente in pace con la sua coscienza, appagato. Forse, inconsciamente, è soddisfatto per la fortuna di non essere a sua volta povero. “Fa bene aiutare chi ha bisogno” – quante volte abbiamo sentito queste parole rivelatrici, all’apparenza innocue ma terribili. Torno alla domanda iniziale: ma che società è mai questa, ripeto ricca e prospera, che genera povertà? Non dovrebbe il suo compito principale essere quello di andare alla fonte, alle radici profonde delle cause che generano povertà, miseria, disoccupazione e porvi rimedio? Non dovrebbe dedicare tutte le risorse necessarie e tutto l’impegno per rimuovere per sempre la povertà una volta per tutte? – una rivoluzione insomma: mica sorrisi e quanto siamo stati buoni! Anch’io aiuto, anch’io do: non è il caso di girare la faccia e ritirare la mano in situazioni estreme. Non mi annovero tra quanti sono soliti colpevolizzare la povertà – “ sei povero, ben ti sta, la colpa è tua”! Sta di fatto però che così stando le cose, la parte ricca si conferma e rinnova in un benessere talvolta sfacciato e indecente, mentre quella povera continua a restare tale.
Ho letto l’articolo. La povertà del terzo millennio purtroppo non riguarda solo i “clochard” e chi vive di elemosina ma anche chi si mette in fila per ricevere un pasto, un cappotto, un paio di scarpe o libri per i figli che vanno a scuola. Un monitoraggio della Caritas Italiana registra un raddoppio delle persone che per la prima volta si rivolgono ai servizi delle Caritas diocesane rispetto al periodo pre-Covid 19. Presso i centri di distribuzione dei pacchi alimentari o alle mense si presentano famiglie che mai si erano trovate in difficoltà e il numero degli indigenti, in Italia, è salito a quasi 4 milioni di persone. Ma secondo l’ISTAT sono 14 milioni gli italiani che vivono al di sotto della linea che delimita la povertà assoluta e tra questi anche chi ha fatto sempre parte del ceto medio. Le criticità maggiori si registrano, guarda caso, al Sud dove un bambino su tre è indigente. Qui la povertà economica si unisce alla povertà sanitaria e a quella educativa. Noi singolarmente possiamo fare ben poco; certo, nel nostro piccolo, non neghiamo l’aiuto e non solo quello economico ma hai ragione quando scrivi che ci si dovrebbe sentire imbarazzati quando diamo qualche euro a chi ha bisogno. Penso che ( ad eccezione di chi pratica l’accattonaggio per mestiere) nessuno chiederebbe l’elemosina se non fosse costretto da una situazione di estrema difficoltà.Però dovremmo anche ricordarci che la parola elemosina, o meglio, la parola greca eleemosyne, significa compassione, misericordia; significa entrare in empatia con l’altro che stende la mano per ricevere qualcosa. L’argomento è spinoso. La povertà, purtroppo, nonostante il progresso e le nuove tecnologie non è mai stata sconfitta e le cause sono molteplici, alcune le conosciamo bene. Il Professor Luciano Gallino, sociologo, aveva coniato un nuovo termine, il “Finanzcapitalismo” che ha preso il posto del capitalismo industriale. Gallino così lo definisce: “mega macchina creata con lo scopo di massificare il valore estraibile sia degli esseri umani che degli ecosistemi “. Forse questa è la causa principale per cui nella nostra società, per molti ricca e opulenta, come scrivi tu, ” la parte ricca si conferma e si rinnova in un benessere indecente, mentre quella povera continua a restare tale”.