Percorrono le loro rotte aeree,
solitari o in grandi stormi,
guidati dall’istinto,
a varcare mari e monti,
e a volte li vedo
nel cielo lattiginoso
di un alba invernale
o all’orizzonte
alla luce che si placa
nell’aura del tramonto,
nelle stagioni che si alternano
con cosmico rito.
Migrano secondo immutata
legge di natura.
Vanno e vengono
a ritrovare compagni e compagne
e nidi, a sfamare creature pigolanti
e insegnare la sopravvivenza
secondo i crismi della specie.
È mistero l’orientarsi
nel buio del cielo.
Quali stelle segnano il volo?
Quali pianeti nella galassia?
Quale fratellanza li tiene uniti
nel cielo in mutevoli forme?
Anche l’umana genìa
da tempi immemori
sospinta dal bisogno
come da innata febbre,
solitaria o in gruppi,
si è fatta migrante
segnando confini
alla madre terra.
Ora, in questo scorcio di secolo,
riprendono le rotte
per mare, per deserti,
per monti e per terra,
ma, ai popoli migranti,
ai naufraghi erranti,
mute sono le stelle e le galassie,
faticoso ai fratelli l’approdo,
spinoso il riparo,
alti i muri,
e dalle risacche
poveri stracci,
come conchiglie spiaggiate
a raccontare storie.
Noi pedestri ci attardiamo incantati a contemplare il volo degli uccelli.
Nell’uomo, inconscio o coltivato, c’è sempre il desiderio del volo, della leggerezza che lo liberi dalla gravità terrestre…
Vaghe e gaie creature sono gli uccelli (secondo Leopardi i meno vessati dalla natura) sui quali medita il leopardiano Amelio filosofo gentile e solitario.
La poesia “Migranti” di Tonino Sitzia coglie bene il contrasto tra le migrazioni aeree e pacifiche degli uccelli, libere da ogni confine, e quelle degli uomini “pesanti”, aspre, di grande travaglio, spesso fino alla tragedia…
Migranti con l’estrema amarezza di subire il rifiuto e l’aggressione dei ‘fratelli’ della stessa specie.