Opere premiate della sezione Bambini e ragazzi
Ambu Beatrice “ANDRA’ TUTTO BENE!!!”
Eravamo un tutt’uno
anche in didattica a distanza,
nei nostri cuori c’era una luce di speranza
per vederci,
lontani da amici e parenti,
i computer erano gli unici ambienti
ecco come potevamo discutere di affari
e mangiare polpi e calamari
ma sui balconi eravamo tutti uniti
ANDRA’ TUTTO BENE!!
DALLA SARDEGNA ALLE DOLOMITI!!!!!!!!
Emma Porcedda, disegno “Il covid e il mondo”
Lai Cloe “La poesia della pandemia”
Noi resistiamo alla pandemia,
che il sorriso ci porta via.
L’angoscia è un’emozione
che ti mette un gran fiatone.
La didattica si è fermata,
lezioni a distanza, mi son stancata …
Qui c’è ansia, stress e paura,
augurami buona ventura!
Mi mancano tanto i miei amici,
chissà se ritorneremo ad esser felici!
Tutto presto finirà
e la vita si rianimerà.
Sara Galassi La strana storia di Kumiko (racconto)
Carissimi lettori,
oggi vi voglio raccontare una storia, la mia storia personale e interiore che ho avuto modo di ricostruire durante questi mesi di isolamento dal mondo quando, nel silenzio assordante della mia camera, cercavo di dare un senso alla mia esistenza.
gennaio 2000
Era Gennaio del 2000 quando nacqui, un nuovo anno era alle porte, tutti erano contenti e la gente aveva grandi aspettative. Probabilmente deluse alla mia vista.
Io infatti non ebbi un’infanzia facile, nessuno mi voleva bene, nemmeno i miei genitori. Sentivo la gente sparlare di me, dire che sembravo un’aliena, paragonarmi a una cosa, ad un sinistro animale peloso, ad un essere senza cervello. Che avevo mai fatto per non avere amore e stima? È vero, non ero bellissima: pesavo circa un chilo, avevo la testa grossa e allungata, delle gambette sottili e lunghe e tanti, tanti peli che ricoprivano viso e corpo. Per una fragile creatura cinese, non erano proprio caratteristiche raffinate. Ma si sa, anche i brutti anatroccoli hanno un cuore e un’anima e, alimentati da amore e rispetto, diventeranno dei bellissimi cigni.
Per me, tuttavia, non fu proprio così. Abbandonata alla nascita, crebbi in un brefotrofio cinese, nella Pechino degli anni Duemila, una città moderna e supertecnologica, ma nella quale era facile trovare muri di ignoranza e viverci ingabbiati. A me toccò una di queste gabbie, insieme ad altri centinaia di ragazzini sfortunati come me, che vivevano alla giornata, tra scuola e lavori pesanti, aspettando solo che arrivasse il momento di chiudere gli occhi per non pensare. Crebbi con la convinzione di non essere nessuno e di non riuscire mai a realizzarmi.
gli anni passarono
Gli anni passarono, finché un giorno capii tante cose. Venni a sapere che la mia madre naturale pensava che io fossi uno scherzo della natura. E la Natura, nei concitati anni del Duemila, non poteva permettersi di perdere tempo a fare scherzi. Il mondo doveva andare avanti veloce. Mio padre, tutto preso dalla realizzazione di una rete di quinta generazione, nemmeno si era accorto che io fossi nata e subito messa da parte.
Maturò in me un’idea strepitosa, forse malata: decisi di rendere la vita impossibile agli altri, prendermi gioco di loro, far soffrire l’uomo, così come avevo sofferto io, far comprendere che la Natura andava rispettata nelle sue decisioni, sempre.
Avevo vent’anni e il mio fisico non era cambiato granché: sempre minuta, pallida, con due braccia e due gambe lunghissime e il testone. Il mio testone, si, era quella parte del mio corpo che mi avrebbe aiutato a rubare qualche vita, soffiando un alito di morte sul viso degli esseri umani. Promisi che mi sarei fermata solo quando il numero dei contagiati e quello dei morti sarebbe stato uguale a quello degli insulti e delle offese da me subite. E soprattutto quando l’uomo, ridotto in gabbia come lo ero stata io, avrebbe capito di aver sbagliato.
Mi ero trasferita da qualche mese a Whuan
Mi ero trasferita da qualche mese a Whuan, dove lavoravo come addetta alle pulizie, in un laboratorio di test biologici. Una mattina, la rabbia covata esplose con tutta la sua forza dopo l’ennesima umiliazione da parte di un mio superiore. Conoscevo diversi segreti di quel luogo, di uno me ne appropriai e lo feci mio.
Cosi, mentre il mondo continuava a viaggiare sui treni ad alta velocità, io mi ero costruita una sorta coroncina per capelli, dotata di una piccola bomboletta di plastica, di un sensore e di una valvola che si apriva solo al contatto con la voce di qualcuno, ed emetteva piccoli soffi di particelle di un virus letale che avevo travasato tempo prima in laboratorio. Cominciai consapevolmente a diffondere un’epidemia. Prima in Cina, poi in Germania, Francia, Italia; presto tutti i paesi avrebbero dovuto dichiarare emergenza sanitaria. E l’uomo, forse, avrebbe dovuto fermarsi.
Passò il primo, il secondo mese e ormai la mia vendetta andava compiendosi.
Al terzo mese, però, mi resi conto che il mio scherzo era andato un po’ oltre e che il numero dei morti e contagiati superava di gran lunga quello delle offese e degli insulti ricevuti. Non sapevo più cosa fare, la mia cattiveria era andata oltre la voglia di vendicarmi e mi rendevo conto che, se prima le persone mi ignoravano, adesso addirittura mi odiavano, si mettevano a piangere parlando di me, perché avevo portato via le persone a loro care e non mi avrebbero mai perdonato per questo.
UNA MATTINA MI RECAI A LAVORO
Una mattina mi recai a lavoro, puntuale come sempre, mi misi a leggere le notizie riportate da un noto giornale e ne lessi una che mi fece trasalire. “Tecnico informatico di Pechino, in prima linea nella realizzazione del 5G, ricoverato da qualche giorno in terapia intensiva, esprime desiderio prima di morire, quello di ritrovare la figlia lasciata al momento della nascita”. Quando lessi quella notizia, rimasi sbalordita; l’unico suono che riuscii a fare fu un gemito di pianto. Volevo piangere e urlare allo stesso tempo, quell’uomo, pur essendo mio padre, non mi avrebbe lasciata se solo mi avesse voluto bene; però in quel giornale c’era scritto che voleva ritrovarmi, che era il suo ultimo desiderio prima di morire. Iniziai a sentire il peso di ciò che avevo fatto; a ogni azione corrisponde una conseguenza e alla mia corrispondeva quella di rimanere sola.
Il giorno dopo, la mattina, ero stanchissima perché pensando a quella notizia, la notte non avevo chiuso occhio. Mi giravo e rigiravo nel letto, a pensare. Come potevo presentarmi di fronte a mio padre dopo tanti anni che mi aveva data per persa, per dirgli che ero stata io a scatenare il virus che lo conduceva verso la morte? La verità è che non potevo farlo. Avevo già causato troppo dolore e sofferenza a tutti. Probabilmente l’avrei fatto anche con lui, oltretutto non sapevo come dirglielo. Ormai mi ero arresa all’ idea che fra qualche giorno non sarebbe stato più tra noi, perciò non sforzai per trovare dentro di me il coraggio di affrontarlo o almeno di andare a trovarlo prima che morisse. Quelle parole, tuttavia, mi riecheggiavano nella mente, allora cercai di pensare che lui mi aveva abbandonata, che non mi voleva bene e al male che mi aveva fatto per cercare di sentirmi meno in colpa.
Tre giorni dopo, accesi la televisione e trovai al telegiornale un’inviata in diretta dall’ospedale più colpito in assoluto. La vedevo che con una mano indicava un paziente che stava davvero male; si avvicinò, con le dovute precauzioni e gli chiese come si sentiva e non appena lo guardai meglio, capii che era mio padre. Mi spezzò il cuore vederlo così in televisione; e mi sconvolse ancora di più quello che disse:“sto malissimo, la notte mi partono dei dolori lancinanti ai reni che nemmeno i farmaci più potenti riescono a farmi passare; ma c’è una cosa che mi fa stare peggio: sto cercando mia figlia da tanti anni perché l’ho dovuta lasciare quand’era piccola pergravi disagi economici e grosse difficoltà, ma poi io e sua madre ci siamo pentiti, perciò prima che morisse anche mia moglie, le promisi che, fosse stata l’ultima cosa che avrei fatto, l’avrei trovata. Ma ora che resta davvero poco tempo, mi rammarico di non esserci riuscito. Se mi sente, sappia che non ho mai smesso di cercarla”.
Una forte fitta al cuore
A quelle parole trasalii e sentii una forte fitta al cuore, riuscivo a mala pena a stare in piedi; non poteva sfamarmi, quindi mi ha lasciata per il mio bene e non ha mai smesso di cercarmi; io invece non ho nemmeno avuto il coraggio di andare a trovarlo in punto di morte. Dovevo fare qualcosa. Non riuscivo a non piangere, così decisi di non perdere tempo e andare subito in ospedale prima che fosse troppo tardi.
Arrivai in ospedale; lo vidi lì, in una stanzetta piccola e isolata per non contagiare nessuno. Senza dare nell’occhio, entrai nella stanza quasi blindata e mi misi di fronte al letto con un filo di voce e dissi: “Sono qui papà”. Appena mi inquadrò meglio, mi riconobbe subito; iniziò a piangere non appena mi vide. Gli spiegai tutto dal principio. Ci fu un momento di silenzio, poi con un filo di voce sussurrò: “Se non altro adesso che ti ho trovato ho mantenuto la promessa” e mi avvolse in un abbraccio, che solo i padri sanno dare. Quell’abbraccio che avevo sempre sognato e che in un attimo allontanò per sempre da me la rabbia, il rancore, la sete di vendetta che per vent’anni mi aveva perseguitato.
Dopo qualche ora spirò e con lui anche l’alito di morte che per mesi aveva devastato il pianeta scomparve per sempre.
Cari lettori, questa è la storia che vi ho voluto raccontare; se non credete alle favole, credete almeno che possa esistere la follia. Ricavate da quiun insegnamento: tutto nel Mondo ha un suo significato, un senso, un motivo di esistere, anche la più incredibile delle storie. Tutto ha un inizio e una fine, tutto arriva e se ne va, in un ciclo di vita eterno che dura da millenni. Il momento drammatico che stiamo attraversando appare come un esperimento sociale inedito, che ha provocato in noi un caos interiore, emozionale, in cui ognuno però ha potuto scavarsi dentro e riflettere sulla missione che ha all’interno di questo Pianeta. Nel dramma del silenzio, ciascuno di noi ha costruito ancora una volta qualcosa di straordinario.
Kumiko
Opere premiate della sezione racconti adulti
Menzione speciale al racconto “L’eredità” di Silvana Picardi
Mi sono sorpresa stamane quando sono uscita di casa. Dopo aver percorso quei pochi ma faticosi scalini che mi portano giù in strada, davanti all’ingresso di quella che io chiamo impropriamente ‘lavanderia’ mi sono fermata.
Un’enorme biscia o serpente
Un’ enorme biscia o serpente, non so quale sia la differenza, era là arrotolata come quei disegni che si vedono sui libri delle elementari. Bella ed elegante mostrava, a circa metà della sua lunghezza. il risultato di un recente morso. In quel punto troneggiava per quasi sei o sette centimetri una parte del suo corpo completamente priva di pelle. Sembrava avesse messo un nastro rosso per andare ad una festa. Mi sono accertata che fosse morta e finalmente ho potuto depositare i barattoli di melanzane che, in questa terra cilentana, mi viene voglia di fare ogni volta che vengo in estate.
Intanto, un gatto scappava. Più avanti sull’altra rampa due lumache procedevano lente avanti a me, ho guardato la loro scia. Non so perché quell’immagine ha catturato la mia attenzione.
Debbo andare al cimitero
Questa mattina, mi sono svegliata di buonora. Come ogni anno ‘debbo’ andare al cimitero, non ne posso fare a meno. In questa terra brulla, dove l’odore della campagna si mescola col mare, dove si vedono pecore e capre pascolare, dove la Madonna ti guarda dall’alto invitandoti a pregare, sono nati i nonni dei nonni dei miei figli. Non li ho conosciuti tutti questo è ovvio ma, la nonna e la bisnonna sì. Ho un dolce ricordo di loro: saggezza e tradizioni!
Quest’anno durante il lokdown quando ero sola col mio tempo, non sempre sono stata ‘incollata’ alla tv avida di notizie. Le immagini toccanti della solitudine mi facevano sentire ancora più sola. L’isolamento delle persone rimaste senza nessuno accanto mi rendeva più triste. L’affollamento in piccoli appartamenti, mi faceva venire in mente la mia amichetta dell’infanzia che viveva, in una sola stanza, con mamma, papà e sei fratelli. Le belle ville, ricche di spazi e di attrazioni, mi facevano riflettere sull’iniqua distribuzione della ricchezza. Una cosa più di tutte però mi ha spinto ad essere parsimoniosa con le notizie: le immagini della morte.
Le inquietanti immagini del corteo dei camion dei militari che trasportavano bare e, in particolar modo, la miriade di urne ammucchiate mi hanno riportato alla mente come immagine della morte la figura serpeggiante dipinta dal Munch.
Urlo
In quell’ ‘Urlo’ disperato ho provato l’angoscia delle mogli e delle mamme che hanno visto uscire di casa, con le proprie gambe, i loro cari e li hanno ‘rivisti’ entrare in un involucro di metallo. Ora se ne stanno là su un mensolone o in una vetrinetta fra libri che non potranno mai leggere o fra tazze in cui mai più potranno gustare un buon caffè.
Sono venuta qua in questa terra cilentana ancora più desiderosa di ’vedere’ i miei morti, i morti della mia famiglia. Sono venuta per parlare con loro.
Quante cose voglio dire alla nonna! L’anno scorso non le ho raccontato niente. Ero in Russia. Ho omaggiato a Mosca, Gogol, Cechov, Tolstoj, Eltsin e Krusciov nel cimitero di Novodevičij. A San Pietroburgo, ‘non mi sono persa’ la tomba del Dostoevskij nel cimitero di Tichvin.
In quelle enormi necropoli dove predomina l’arte, dove non solo l’emerito letterato, il politico e l’artista mostrano i segni evidenti della loro fama, compaiono opere preziose di soldati e gente comune. Persone semplici raffigurate mentre fumano col loro cane accanto e in atteggiamenti consueti del loro vivere quotidiano.
Abbiamo fatto scorpacciate di foto in quei cimiteri che sembravano musei. Valeria non perdeva nessuna sepoltura. Non le importava se noi amiche fossimo stanche.
‘ Voglio capire che fotografi Cechov e Dostoevskij’ replicava Imma ‘…ma che ce ne importa dei soldati …. nemmeno li conosciamo! ‘
La fotografa del gruppo
La fotografa del gruppo, noncurante continuava imperterrita. Maria, col volto nel display del cellulare digitava, controllava messaggi che non giungevano mai mentre volgeva lo sguardo qua e là catturando le immagini e le sagome che più la interessavano. Io, senza perdere di vista nessuna amica, mi inoltravo in qualche sentiero dove avevo intravisto, da lontano, qualcosa che aveva colpito il mio interesse. Scene di vita in scultura si presentavano davanti ai miei occhi. Quei corpi avrebbero continuato a vivere attraverso quell’immortalità marmorea in tutti i tempi.
‘I nostri morti, i morti di questa pandemia non sono così, non hanno identità!’
mi sono detta quando sono entrata al cimitero ‘armata’ di secchio e detersivo per lavare la tomba della nonna dei miei figli. Ho parlato con lei mentre lo facevo, le ho chiesto scusa per qualche volta che non l’ho compresa. Le ho raccontato di me mentre mettevo piante nuove. Ho rivisto il suo viso di quel giorno, quando non aveva più memoria. Quando mi guardò in viso e mi disse:
‘ Signora, non so chi siete ma non so perché… vi guardo e mi viene da piangere’
La nonna dei miei figli ha un’identità
Continuo la mia visita. Vado ora dalla bisnonna, la sua mamma. Che saporiti cavatelli mi faceva e quante pizzette col pane raffermo!
La nonna dei miei figli ha una identità anche se alla fine dei suoi giorni non ha avuto più memoria. Ha una identità perché so il suo nome, i suoi antenati. Conosco le sue gioie, i suoi dolori, me li ha raccontati. Conosco i suoi sentimenti: mi ha riconosciuta!
“Indovina come sono fatte, indovina” mi chiedeva
Ed io “Con le patate? “
“Ma che patate!” replicava lei ridendo.
La nonna anzi la bisnonna, era davvero divertente. Parlava con i gatti, addomesticava la gallina. Era uno spasso sentirla dire:
“Vuoi vedere che la chiamo e lei viene qui?”
Quella pennuta davvero si avvicinava. Che ridere!
Hanno lasciato in me un caro ricordo queste due nonnine. Un ricordo dolce. Hanno lasciato la loro scia.
Una scia vischiosa come quella delle lumache che stavano sui gradini.
Hanno lasciato traccia del loro passato…
Hanno lasciato traccia del loro passato, i loro pensieri e i loro insegnamenti con la consapevolezza di lasciarci un’eredità inestimabile. Hanno tracciato bene il loro percorso. L’hanno solcato avendo cura che alla prima pioggia non si disperdesse.
Ho pregato davanti la tomba della bisnonna, non le ho detto niente, lei già sapeva! Poi chi sa per qual ragione, ho voluto ‘vederla’. Mi sono adoperata per chiedere di aprire il marmo per vedere la cassetta. Il custode, che conosce tutti in questo paesino cilentano, subito mi ha contentata. Con un gesto rapido ha aperto le due levette superiori e, meraviglia: la nonna non c’è più!
‘Dove è andata la nonna?’ Ho chiesto
‘Dove l’avete spostata?’
Per ben una settimana ed oltre, prima con l’aiuto dei tre impiegati del cimitero e poi con una dipendente del comune, ho cercato non solo di capire cosa fosse successo ma, soprattutto dove fosse la nonna.
“Signò, se l’hanno pigliata…hanno fatto comme Maicche Buonggiorno”
‘Come Mike Buongiorno?’ Sdrammatizzavo anch’io nel vederli ricercare fra le tante cassette, poste al piano inferiore della chiesa del cimitero, quella della nonna. Sarebbe giusto dire della bisnonna ma, io così la chiamavo.
La salma era introvabile. Come si fa, in un paesino di circa tremila persone a trovare la salma giusta? Qui, dove tanti hanno nomi e cognome uguali?
Ecco che a questo punto ho dovuto fare indagini.
‘ Quando è nata la bisnonna? Quando è morta?……Come faccio a ritrovare la cassetta giusta se non so queste date?’ pensavo.
Povera impiegata comunale! Quanto lavoro per ricercare e andare indietro nel tempo senza commettere errori!
Quanti registri sono stati visti? Quante grafie dell’epoca, illeggibili e sbiadite dal tempo sono state interpretate? Un’infinità.
Siamo risalite al 1861, periodo in cui spesso chi andava a registrare la nascita al comune era la persona che ’ aveva preso il parto’ in casa. Talvolta erano braccianti e contadini di questa bella terra cilentana che troppo spesso non sapevano a chi veramente appartenessero o pensavano che il nome col quale erano chiamati fosse il loro vero nome.
Che ricerca tortuosa! Alla fine fra consultazioni e informazioni, la ricerca ha dato i suoi frutti.
La nonna è stata trovata.
Si trova nella cappella distaccata dal cimitero dal 1985, da quando è morta. Non si è mai mossa di là. Era nata nel 1894. Aveva 91 anni la bisnonna che addomesticava galline e parlava con i gatti, che raccontava lasciandomi la sua scia.
‘Ma allora io in tutti questi anni chi sono andata a trovare?’
Ho parlato a una donna che aveva il suo stesso nome ma, non la stessa identità, la stessa scia!
Ho parlato con lei, mi ha ascoltato senza capire. Muta ha ascoltato. Ha avuto orecchie solo per me. Io ho continuato il mio dire.
Là su quella rampa di scale non ci sono più quelle due lumachine e non c’è nemmeno più la loro scia.
Mentre rientro sento le migliaia di ceneri sussurrare: ‘ La nostra bava
l’abbiamo lasciata. Custoditela nel cuore e nella mente: è la nostra eredità‘
Primo Premio ex aequo a due racconti: “Un raggio di luce” di Giorgio Di Maggio e “Viaggio dentro casa ai tempi del covid” di Cristiana Sarritzu
Giorgio Di Maggio: “Un raggio di luce”
Accadeva ogni mattina. Mi salutavano con il loro sorriso “guaritore”, ed anche se qualcosa era andata storta, il solo fatto di vederli, mi metteva di buonumore. Attendevano che li accompagnassi al tavolo. Ero solito riservargli il loro preferito, non solo perché clienti affezionati, ma soprattutto per la stima che avevo nei loro confronti. E non ero l’unico. Colleghi, pazienti, politici, clero, negozianti, tutti stimavano i due coniugi.
Erano andati in pensione contemporaneamente, come insieme avevano trascorso la vita sin dai tempi dell’università.
Si conobbero in fila nella segreteria della facoltà per l’iscrizione al primo anno del corso di laurea in medicina
Allora non c’era il numero chiuso, né si doveva superare l’esame di ingresso. La selezione avveniva successivamente in modo naturale. Andavano avanti solo i meritevoli e i figli dei baroni.
Si distinguevano gli uni dagli altri all’istante, senza equivoco, pur con qualche eccezione. I primi in blue jeans sciupati ed eschimo, solitamente verde con l’imbottitura di finta lana bianca; i secondi, anch’essi in jeans ma con il loden, pullover e camicia.
C’era qualcosa di ancor più distintivo: la capigliatura e il modo di parlare.
I meritevoli e i figli dei baroni
I meritevoli coi capelli arruffati, senza un garbo. I figli dei baroni coi capelli curati, anche se non esageratamente, erano pur sempre giovani, giovani matricole, mai di colore nero; quel nero corvino dei meritevoli. Parlavano entrambi un italiano perlopiù corretto. I figli dei baroni senza un evidente accento, con la esse e la erre moscia. Erano un po’ mosci in tutto. I meritevoli, più sanguigni, nei momenti di fervore manifestavano impulsivamente l’animo “operaio” delle loro origini.
I due coniugi si sedevano, ordinavano due caffè ristretti e mezza minerale. La bottiglia nel mezzo faceva da testimone alla loro armonica unione.
Il sole a quell’ora usciva dal tetto del palazzo di fronte e sfiorava il capo di lei, come un raggio di luce sull’argento.
Tra saluti e sorrisi, non era raro vedere qualche specializzando che fingendo di passare casualmente dal bar, chiedesse loro consigli o chiarimenti.
Si trattenevano una mezz’ora; mi salutavano e proseguivano poi camminando sul viale che terminava all’ingresso di villa Fiori, in corrispondenza del cancello sorretto da due possenti muri congiunti da un arco sul cui concio in alto e in bella mostra vigilava lo stemma del casato.
Gli eredi Fiori
Gli eredi Fiori avevano sperperato il patrimonio accumulato con scaltrezza dai loro antenati. Gli averi erano passati, con moderna astuzia, nelle mani di emergenti faccendieri organizzati e una buona parte sperperati in seducenti casinò del nord. La villa fortunatamente non aveva subito la stessa tragica sorte, ma era divenuta proprietà del comune che se ne prende tuttora cura ed è goduta un po’ da tutti, compresi i due coniugi che giunti lì, iniziavano cambiando ritmo a percorrere i viali selciati per la loro abituale camminata spedita.
Avevano conseguito, dopo la laurea con lode, la specializzazione in cardiologia indirizzandosi poi in quella pediatrica, dedicando la loro vita a curare i cuori dei bambini.
Pur meritandolo entrambi, nessuno dei due diventò mai primario; rimasero aiuto di reparto fino all’ultimo. Fino a fine carriera. Ciò non li turbò mai veramente. La loro gioia era vedere il sorriso dei loro piccoli figlioli che assistevano come veri figli. Veri figli: quelli naturali s’intende; come se i veri figli fossero solo quelli naturali. Non ne concepirono e non se ne seppe mai il motivo, né se ci avessero mai provato.
Il destino aveva deciso così.
Nel primario trapelava imbarazzo e soggezione specialmente quando era costretto a consultarsi con loro per i casi più complessi. Riconosceva la loro maggior capacità. I due coniugi sembravano illuminati; forse lo erano davvero. Del resto tutti conoscevano le ragioni per cui il primario ricopriva quel ruolo, anche se ora non indossava più il loden dei tempi dell’università.
I due coniugi non si risparmiavano, giorno e notte pronti ad intervenire. Mai denaro per le visite, anche se prestate fuori dall’ospedale o negli orari più disparati; spesso nelle case dei piccoli sventurati. Avevano addirittura dedicato una piccola stanza del loro appartamento ad ambulatorio per i meno abbienti.
Rifiutarono sempre con eleganza di scendere in politica nonostante le insistenze di onorevoli politici di ogni schieramento. Vivevano bene e semplicemente di quello che riuscivano a realizzare con i loro stipendi pubblici. Nobili d’animo. I giorni scorrevano simili.
La frustata
La vita d’un tratto ebbe una frustata. Un guaio globale: mondiale. Repentino. Un virus, non si sa ancora con certezza di quale origine e per quale ragione, aveva iniziato a circolare e propagarsi fra le genti, varcando confini, mari, monti. Un virus dal comportamento singolare. Ad alcuni causava la morte, ad altri niente di niente; oltre a tutte le disgrazie fra il niente e la morte. Il contagio fece precipitare gli ospedali nel caos. I reparti andarono in tilt, compresa la cardiologia pediatrica.
Il virus era un accanito nemico degli anziani ma chissà perché – non dei bambini, che aveva deciso di non disturbare. Saltarono le programmazioni: visite, terapie, interventi. Tutte le risorse vennero dedicate all’infettivologia, come se le altre patologie fossero di colpo scomparse.
Spinti dall’amore mai sopito per il loro lavoro e per i più piccoli, i due coniugi, nonostante fossero in pensione da anni, non esitarono; ripresero a visitare e curare nuovamente i loro figlioli per non lasciarli senza la fondamentale assistenza, ormai impossibile presso le strutture ospedaliere.
Trasformarono la loro casa; riservarono un’ulteriore stanza per le visite, sicché lei in una e lui in un’altra, ricevevano senza sosta genitori e bambini in un continuo incessante viavai, consapevoli ma incuranti del pericolo, come i frati cappuccini durante la peste dei promessi sposi.
Mesi duri, di dolore, angoscia e tristezza. La popolazione chiusa, o per meglio dire rinchiusa in casa, passava ore di fronte alla televisione, nella speranza di ascoltare qualche buona notizia. Grafici, statistiche, numeri, opinioni, decreti, show: tutti in bella mostra ad esprimere pareri, alcuni pur senza averne nessun titolo o accreditamento. Purtroppo molti anziani ci lasciarono, in silenzio, in solitudine, così. Un’intera generazione svanì, come acqua al sole.
La sorte purtroppo non risparmiò nemmeno i due amati coniugi. Contagiati fecero parte di quel gruppo: come acqua al sole. Nella stessa notte se ne andarono, sereni come sempre, assieme. In silenzio. Rimasero però nei cuori dei loro piccoli pazienti, dei famigliari, dell’intera città.
Esempio di grande umanità. La loro esistenza segnò i cuori. Due anni di supplizi fisici, economici, sociali; poi tornò un po’ di sereno. Le persone via via ripresero le loro attività. La villa si popolò come in passato. Il tempo cancellò solo in apparenza le tracce di quell’infausto periodo.
Finalmente rialzai le serrande e riportai in pressione la macchina per i caffè. Sistemai di nuovo i tavolini e le sedie che tornarono nella loro solita disposizione e come sempre il sole a quell’ora usciva dal tetto del palazzo di fronte, ma non trovava più quel capo da sfiorare come un raggio di luce sull’argento.
Non so bene perché – ma ogni mattina dopo aver sistemato il locale, metto nel centro di quel tavolo una “mezza” minerale, e mi piace immaginare che faccia ancora, lì dove sono ora, da testimone alla loro armonica unione.
Cristiana Sarritzu “Viaggio dentro casa ai tempi del Covid”
Scorgo le prime luci dell’alba e mi affaccio al balcone della camera da letto, lasciando che i pensieri scivolino via. Sono frastornata. L’emergenza Covid19 con il conseguente stop del governo che impone di restare a casa ci è precipitata addosso come un macigno, mettendo a nudo le fragilità. Ho scelto però di allargare il punto di vista e osservare le cose in un’ottica cubista, seguendone tutte le sfaccettature. Nell’atto di scomporre e ricomporre la realtà in cui mi trovo, dove ansia e paura, insieme al senso di oppressione per i vincoli imposti, rischiano di avere la meglio, scopro una possibilità, quella del viaggio tra le pareti di casa. Una sosta, una pausa dall’andirivieni quotidiano, dal ritmo frenetico delle giornate, insieme alla libertà di scegliere come trascorrere il tempo, di dedicarmi quanto voglio ai miei interessi, ma soprattutto di fare quelle cose che non mi concedo mai, come per esempio dedicarmi agli impasti di una volta. Desideri nascosti che porto con me dall’infanzia, ricordi di bambina quando di tanto in tanto mamma si metteva a impastare le uova e la farina, quasi eco di un‘emozione ancestrale, di una manualità antica e forse impressa nei geni, il movimento di mani e dita. La mia casa è in collina, in Sardegna. Quando mi affaccio al balcone della camera da letto vedo i monti, un frutteto, e qualche abitazione qua e là.
Inizia il viaggio
Inizia il viaggio. Ora sono nella sala da pranzo seduta sul divano. Una lampada da terra bianca, la gatta che mi guarda da dietro i vetri della finestra, il caminetto acceso. C’è un piano di marcia da stilare, ma lascerò che sia il cuore a condurmi in questo essere in movimento tra le pareti di casa, un itinerario da scrivere giorno per giorno. Saranno emozioni e curiosità a guidarmi. Sono ancora sul divano, il pc e svariate idee per la testa. In questo momento mi accorgo di abitare lo spazio che desideravo, costruito nel tempo pezzo per pezzo: il teatrino di carta nel sottoscala per le fiabe, piccole pile di libri di saggi e poesia sparsi dappertutto, un paio di ferri da lana e uno scampolo rosso, ricordo di una persona speciale.
Prima tappa
Prima tappa in cucina per la colazione: tazze e bollilatte, fiori e frutta, miele e marmellata, ci sono tutti gli “ingredienti” per dipingere una still Life. Io non lo so fare, ma ho una curiosità, quella di scoprire se è esistita un’artista che si è distinta nel genere. Un tuffo nel web e trovo un nome, Clara Peeters (1594, data di morte ignota), pittrice fiamminga, pioniera dello still life. Nelle sue opere svettano le tipiche colazioni e pranzi olandesi, così come le posate e i fiori, curati nei dettagli, dando volto alla luce, ai suoi effetti speciali. La luce: osservo la pianta di fiori sul tavolo e il raggio di sole che la illumina in un gioco di bagliori e ombre che accende il rosso dei petali, l’intensità. Un richiamo al presente riposto nell’intimo di ciascuno di noi, il dolore per i morti e malati di questi giorni che cambia la visione delle cose, riconduce ai valori, all’essenziale. In sottofondo la voce del cronista che annuncia le ultime notizie: il numero dei decessi, dei malati, le guarigioni. La realtà si scompone e ricompone di continuo, entro ed esco dal mio viaggio tra chiamate e messaggi al cellulare, il mio lavoro a distanza, le notifiche sui social, il tg. Poi spengo tutto. Pausa.
Di nuovo in cucina. Prendo le uova dal frigorifero, riempio una terrina di farina e amalgamo il tutto, poi mescolo la ricotta con il parmigiano e piccole foglie di timo per fare il ripieno dei ravioli. Metto a riposare l’impasto per trenta minuti e resto a guardare con l’illusione forse di ritrovare un sapere perduto. Quel sentire fatto di cose vissute con semplicità, in autenticità. Senza mettere il viso fuori dall’uscio osservo i gatti in giardino che dormono accovacciati sopra la cenere del barbecue. Appisolati sotto il sole sbadigliano mentre tento di fotografarli. Faccio un altro giro sul web alla ricerca di artiste dello still life, ho un altro nome, Maria van Oosterwijck (1630 – 1693), pittrice olandese. Fu famosa per le sue rappresentazioni floreali, ma il suo nome, in quanto donna, non fu inserito nella lista della corporazione dei pittori. Ebbe più successo di loro però, tra i suoi committenti e protettori Luigi XIV e tanti altri di pari calibro. Artista e imprenditrice, ebbe il coraggio di andare controcorrente, scegliendo di non sposarsi e di dedicarsi completamente all’arte.
La lavastoviglie
E’ ora della tisana e devo scaricare la lavastoviglie. “La lavastoviglie…”, elettrodomestico sempre presente e tanto ambito, “chi la inventò?”, digito il nome su Google e scopro con sorpresa che fu una donna. Jhosephine Cochrane, statunitense (1839 – 1916), di famiglia benestante, organizzava eventi mondani per promuovere l’immagine sociale del marito, commerciante e politico. Amava tenere cene ed esibire le sue preziose porcellane cinesi, eredità di famiglia, per fare colpo sugli ospiti. Accadeva però che la servitù ne rompesse sempre qualcuna o che non venissero lavate bene. Dopo numerosi e improduttivi richiami decise che, “se nessuno aveva inventato una macchina per svolgere tale compito ci avrebbe pensato lei”. Con una buona dose di fantasia, temperamento e perseveranza riuscì nell’impresa. Si presume che possedesse anche qualche conoscenza di elementi d’ingegneria perché suo padre, che progettava mulini ad acqua, rimasto vedovo, la portava spesso con sé, rendendola partecipe del suo lavoro. Si racconta inoltre che avesse disegnato i pezzi di base, che ancora oggi fanno parte delle più moderne lavastoviglie, prendendo le misure delle sue porcellane. Inventò un macchinario i cui principi di costruzione sono rimasti invariati, ed ebbe successo, nonostante le discriminazioni di genere. Presentò il brevetto all’Esposizione di Chicago del 1893 e vinse il premio alla Migliore Invenzione Meccanica, attirando l’attenzione di tante persone che non riuscivano a credere e accettare che fosse opera di una donna. La sua invenzione fu chiamata “Cochrane Lavastoviglie” ed ebbe una larga diffusione soprattutto tra gli hotel e i ristoranti. Grazie al successo ottenuto riuscì a emanciparsi e malgrado i debiti del suo defunto marito, a condurre una vita agiata.
“L’Italia supera la Cina per numero di decessi”, si legge in sovrimpressione sullo schermo della tv. Ho bisogno di silenzio. Sono triste, arrabbiata, spaventata. Ma soprattutto in collera con chi sminuisce o nega la gravità della situazione, comportandosi in modo irresponsabile. La tensione a tratti è tale che finche’ non mi rimetto in viaggio, mi adiro per un non nulla.
Una rampa di scale ed eccomi nella sala da bagno, prima fermata. Mi guardo intorno come se vi entrassi per la prima volta. Lo sguardo si muove come in dissolvenza da una cosa all’altra: carta igienica, dentifricio, doccia, vasca da bagno e via di seguito. Osservo con sgomento che su di loro non so nulla. La carta igienica, per esempio: quando nacque, dove e per opera di chi? Una ricerca veloce e scopro che i primi a far uso della carta da toilette siano stati i cinesi nel XIV secolo, e che prima di allora ci si arrangiasse con un po’ di tutto, dall’erba all’argilla. Fu nella seconda metà dell’ottocento che comparve il primo prodotto moderno, ad opera dello statunitense J. Gayetty, confezione con salviette, ma non ebbe successo. E fu l’invenzione del rotolo di carta a far crescere le vendite nel 1890 grazie ai fratelli Clarence e Irving Scott. Ma la svolta si ebbe nel 1928 quando la Hoberg Paper, nello Stato della Pennsylvania, per lanciare l’articolo incarica un team di pubblicitari che lo battezzano con un nome accattivante “Charmin” e studiano un logo su cui è raffigurato il corpo di una bellissima donna, successo assicurato. Da allora nessuno ne fece più a meno. Sarà vero? D’ora in poi la guarderò con occhi diversi. In Italia se ne ebbe larga diffusione dagli anni 60.
Riaccendo il cellulare ormai sovraccarico di messaggini. Proliferano immagini e video ironici marcati “Io resto a casa”, fake news sull’epidemia e quant’altro. Mi siedo sul bordo della vasca da bagno. Di lei si legge chenel 1917fu protagonista di un fatto mediatico interessante: i principali quotidiani americani avevano pubblicato un articolo in cui un famoso giornalista, H. L.Menchen, criticava la stampa per non aver celebrato il 75esimo anniversario dell’invenzione della moderna vasca da bagno, e che tale evento non dovesse passare inosservato, perché a lei s’intrecciavano molti fatti importanti per il popolo americano. La notizia, come l’autore aveva previsto, aveva fatto in lungo e in largo il giro del paese. Ma era volutamente falsa. Lui sospettava, avendo fatto l’inviato di guerra, che molte news diffuse durante la prima guerra mondiale non fossero vere ma solo di natura propagandistica. La sua fu una provocazione verso quei giornalisti che avevano l’abitudine di pubblicare notizie false, e una burla per i lettori americani che si bevevano tutto. Aveva utilizzato una icona come la vasca da bagno per confermare e dimostrare la sua tesi a tutta la nazione. Apro la finestra, sfumature rosse dipingono il cielo, la montagna i tetti delle case.
Bisogno di poesia
Il sole ci saluta. Chiudo la porta, ho bisogno di poesia. La cerco nello studio tra gli scaffali della libreria. Prima però mi affaccio al balcone per godermi il tramonto, da lì si vede meglio. Giochi di luce sulle case, il paesaggio. Ho bisogno di poesia. Trovata.”…Sullo schermo davanti a me, un garbuglio colorato di luci, legate, intrecciate, si muove. Una ragnatela sensibile di luce mutevole, perché il sole si muove, l’aria si muove. Danzo la mia danza lenta…”( Muriel Rukeiser, L’artista del sole).Ma il mio compagno accende la tv e la voce del giornalista rompe l’incanto, scendo in sala da pranzo. Un’altra terribile notizia: a Bergamo il numero dei morti è tale che non c’è più spazio nelle camere mortuarie e nei cimiteri. Il governo restringe ancora le misure di contenimento: le passeggiate solo entro duecento metri da casa, chiusi parchi e giardini. L’impatto del coronavirus sull’economia è drammatico. La Commissione Ue, messa alle strette, ha attivato la clausola di salvaguardia del Patto di stabilità che consentirà ai governi di ricevere tutto il denaro necessario per sostenere i cittadini e l’economia. Non è tutto: il numero di morti e casi positivi è cresciuto in modo esponenziale in Lombardia. Penso con ansia a mio fratello che vive a Milano e poi a mia sorella che sta a Parma. Spengo la tv e mi accosto al fuoco del camino. Avverto un senso di calma e sacralità che evoca in me il ricordo delle letture sui riti del fuoco in onore di Estia, divinità greca del focolare. Case, templi e città, si narra nei miti, venivano consacrati con il fuoco della Dea, fonte di luce, calore, intima unione. Ma c’è qualcosa che le fiamme sembrano dire: “Vorrei che la mia anima ti fosse leggera, che la mia poesia ti fosse un ponte, sottile e saldo, bianco – sulle oscure voragini della terra” (Antonia Pozzi, Lieve Offerta).
Mentre scrivo sento lo scoppiettio del camino, un brusio di legna che brucia, socchiudo gli occhi e resto ad ascoltare senza fretta. Quel rumore rievoca in me il fragore del mare. Il mare, dovrò restare lontano per un po’. Chiudo ancora gli occhi. Il brusio pian piano si placa, così la fiammella, dovrò aggiungere un altro arbusto.
Opere premiate della sezione POESIA Adulti
Primo Premio Ex Aequo a Ada Firino e Marina Cozzolino
Ada Firino “Come il vento”
Ti hanno portato via, corpo nudo,
avvolto in un bianco lenzuolo,
privato di sorrisi, senza un saluto,
senza le mie lacrime
ad accarezzarti le mani.
Siano sacre quelle dita posate sui tuoi occhi
che hanno scaldato, per un attimo, il tuo petto.
E, come il vento che passando
accarezza dolcemente l’anima del mondo
e spira oltre, così, padre mio, tu mi lasci.
Ed io, qui, ora… orfana di tutto.
Marina Cozzolino “Semplicemente speranza”
Sentire soltanto silenzio
sentirsi stanchi, smarriti
segregati, sbigottiti, straniti
senza sorrisi, senza saluti
senza spontaneità.
Solitudini sofferte
sere senza sole
sofferenze strazianti
silenzi sepolcrali.
Straordinaria sanità
saper salvare
saper salvaguardare
saper sconfiggere.
Schiarite…
Sentire sensazioni
sentimenti sopiti.
Seriamente scienza.
Seppure sconosciuto
sfida, scommessa.
Suvvia!
Scintillii, sospiri
sogni, serenità
scuola, scolari
semplicemente
speranza.