Questa riflessione (forse un poco stravagante) cominciata per lo spazio dei commenti a “Qualcosa, là fuori”, di Bruno Arpaia, recensito da Tonino Sitzia, man mano si è andata allungando. Dunque è finita qui nella rubrica “Riflessioni”.
Homo faber
Da cosa differisce l’animale umano dagli altri animali che popolano la terra?
L’uomo con il suo lavoro trasforma l’ambiente in cui vive: egli, infatti, si è dotato di strumenti e di tecnologie sempre più avanzate e raffinate. Tutt’altro che fedele alla natura in quanto immette e diffonde, nel “naturale”, l’”artificio” del suo lavoro. Qualunque attività umana comporta sempre e comunque una forza, una violazione, talvolta sconvolgente, sull’ambiente. Non esiste nei confronti della natura un “impatto zero” dell’attività umana.
Il Capitalismo
Se poi, uscendo dal generico, consideriamo l’uomo capitalistico organizzato dentro un sistema che permea ormai l’intero globo, la cosa si fa allora alquanto drammatica. Mi riferisco al capitalismo come sistema economico-sociale potente e dominante, capace di mimetismo e di formidabile adattamento; capace di servirsi delle più sofisticate tecnologie. Sistema minato, però, da una contraddizione insanabile tra lo scopo (l’incremento indefinito del profitto) e quel suo carattere distruttivo (saccheggio senza limiti delle risorse naturali) presente nella produzione capitalistica della ricchezza. Questo sistema è l’ostacolo (e che ostacolo!): occorre esserne sempre più consapevoli e conseguenti. Un sistema via via sempre più incompatibile con l’ambiente, con la vita, con il futuro.
La parola
L’uomo ha facoltà di parola. Di qui gli proviene la coscienza di sé stesso come individuo facente parte di una comunità. Nomina le cose, pensa, confronta, indaga; prende coscienza della sua esistenza biologica e del “chi è”, in divenire, nel rapporto con gli altri. Un gatto non sa di essere gatto, né sa, né ragiona sulla sua esistenza. Non trasforma l’ambiente che lo circonda (sia esso domestico o selvatico). E così gli altri animali, non producono utensili, né strumenti per modificare il loro abitat.
Non ci vuol molto a immaginare che una Terra senza la presenza dell’uomo sarebbe di grande giovamento per gli altri animali. E anche per tutte le specie di vegetali presenti in terra e in mare.
Spocchia e bla bla
Suona strano allora nella bocca dell’uomo, ciò che si sente dire: “dobbiamo salvare la Terra, proteggere la natura, disinquinarla; fermare l’innalzamento della temperatura globale”. Ormai triti luoghi comuni (il bla bla denunciato dalla norrena Greta). Invece bisognerebbe, con più onestà dire: “è l’uomo da salvare e con lui tutti gli altri animali, e per farlo sarà necessario prenderci cura dell’ambiente in cui viviamo e rispettarlo”. Di Terra non ne abbiamo una di scorta. La natura risponde all’azione dell’uomo trasformandosi. E la Terra anche senza di noi, anche senza l’aria, anche senza l’acqua, sarà per un lungo tempo siderale sempre lì pianeta ruotante del sistema solare nella galassia della “Via Lattea”.
Un’ombra
Infine c’è un aspetto, non so se posso dire, “psicologico-esistenziale”. O magari è solo una mia personale osservazione “poetico-irrazionale”. Sin da quando nasciamo, dentro di noi si fissa un’ombra – è l’ombra della nostra morte. E ben presto, come cominciano a passare gli anni, prendiamo consapevolezza di quest’ombra. Dunque l’uomo sa dell’inevitabilità della morte, della sua propria e certa fine. Si abitua a convivere con questo sentire: come cosa scontata, “naturale”. Questa dimestichezza con la morte forse è la ragione di un certo nostro attardamento e indifferenza ai guai ambientali del nostro mondo. Altrimenti perché questi guai (che portano verso l’irreversibile) non muovono masse sterminate in tutto il mondo, pensando alla sopravivenza della specie oltre la nostra singola morte? Forse il nostro inconscio in qualche modo ci sussurra: “tanto dobbiamo morire, è certo, non c’è scampo. Che importa se la nostra specie scomparirà dalla faccia della Terra”.