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GIORNO DELLA MEMORIA 2022

Per non dimenticare: storia di Luigi Sarigu, un deportato masese

Voi non la conoscete la guerra, e forse pochi di voi ricordano il mio nome, magari i più anziani si ricordano di tziu Luiginu Sarigu, come mi chiamavano in paese .Eppure mi hanno anche dedicato una via qui ad Elmas, sul prolungamento della via Amerigo Vespucci là oltre la 130, in località Is Punteddus.

Voi la guerra non la conoscete, o magari l’avete studiata nei libri dove di noi, della gente semplice come me, non si parla. Voi la guerra non la conoscete e siete fortunati, sono passati tanti anni ormai, esattamente 77 dalla fine della seconda guerra mondiale. Tanti anni ormai, è roba di nonni e bisnonni, di lapidi e monumenti ai caduti, di fogli ingialliti, conservati chissà dove dai parenti di chi la guerra l’ha fatta veramente.

Io invece l’ho conosciuta la guerra… e mi voglio presentare come quando mi arrivò la cartolina per fare il soldato di leva nel 1938 e come risulta dalla scheda N. 9280 del Distretto Militare di Cagliari: Luigi Sarigu, figlio di Lorenzo Sarigu e di Sinis Massimina, nato il 26 agosto 1920. Le schede militari sono precise e pibinche, ma a volte sbagliano o contengono errori. Mio babbo per esempio non si chiamava Lorenzo ma Francesco anche se tutti in paese lo chiamavano Lorenzo…per il resto la mia scheda è abbastanza fedele: “Altezza 1,58, torace 82, capelli neri e lisci”… e certo! Sono sardo! Mica potevo avere i capelli biondi! “Viso piccolo, naso piccolo, occhi castani, colorito bruno”  ecc, ecc, fino alle notizie finali: “Cicatrice guancia sinistra; arte o professione: bracciante; titolo si studio seconda elementare”.

Elmas in quegli anni era un paese di poco più di 1500 abitanti, era un paese di pochi proprietari  e molti braccianti giorronaderis, di quelli che si guadagnano il pane a giornata, si lavorava nelle vigne, negli orti, negli oliveti, e i prodotti dell’orticoltura masese erano famosi. Molti lavoravano come pescatori in su stani de Santa Gilla.

A Elmas eravamo quasi tutti fascisti, credevamo nel Duce, facevamo il saluto fascista, eravamo Figli della Lupa, Balilla, Moschettieri, Avanguardisti, Giovani del Littorio, partecipavamo, alle adunate, alle parate, e poco sapevamo di quello che succedeva nel continente e nel mondo, cantavamo faccetta nera perché piaceva quel motivetto allegro, senza sapere molto dell’Abissinia e dell’Africa.

Pochi di noi sapevano che nel 1938 erano state approvate le leggi contro gli Ebrei, e molti,  quando gli ebrei furono perseguitati, avevano girato la faccia da un’altra parte. Ma questo l’avevo saputo dopo…  

Nel mese di maggio del 1939 avevo finito il mio servizio di leva e nel foglio di congedo c’era scritto “Soldato di leva classe 920 distretto di Cagliari lasciato in congedo illimitato”. Stavo per compiere 19 anni ed ero contento di essere tornato a casa e riprendere la mia vita normale, riprendere il mio lavoro, ritrovare i miei amici, stare dietro a qualche ragazza, e già frequentavo e mi piaceva Nella, la figlia de tziu Salvatore Argiolas e tzia Giovanna Picciau.

Contento del mio congedo non avevo dato peso a quanto era successo appena un mese prima: il 7 aprile 1939 le truppe italiane erano sbarcate a Durazzo, un porto sulla costa adriatica che io non conoscevo: il nostro re Vittorio Emanuele III, che era già Imperatore d’Etiopia, era diventato Re d’Albania.Il 22 maggio dello stesso anno L’Italia e la Germania avevano firmato il Patto d’Acciaio.   

Eravamo troppo giovani per capire cosa stava per succedere, ma qualcuno più informato di noi diceva “soffiano venti di guerra” e altri scherzosamente aggiungevano “bogaindi sa divisa allogada e preparaisì a partiri”…

Nel marzo del 1938 Hitler si era annesso l’Austria, e l’anno dopo, il 1° settembre del 1939 la Germania aveva invaso la Polonia: era scoppiata la seconda guerra mondiale.

Avevo capito subito che il “congedo illimitato” stava per finire.

Il 10 giugno 1940 Mussolini aveva annunciato l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania e nella radio si erano sentite le parole finali del suo discorso, poi riportate dai giornali “Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!”Il 28 ottobre 1940 l’Italia dichiarò guerra alla Grecia.

Eravamo troppo giovani per sapere che la Grecia non si era mica alleata con gli Inglesi, che non aveva alcuna intenzione di invadere l’Albania occupata dagli italiani, e che il primo ministro Metaxas, che pure non nascondeva le sue simpatie per il fascismo, non avrebbe mai accettato l’ultimatum del Duce di entrare in territorio greco oltrepassando la linea di confine con l’Albania italiana. La propaganda però, ed era quello che noi sentivamo, diceva che i greci erano dei traditori, che avevano rotto la neutralità, che erano vili e deboli, e che nel giro di pochi mesi ne avremmo spezzato le reni, come aveva detto Mussolini. Ben presto ci saremmo resi conto che i Greci non erano vili e deboli ma coraggiosi e determinati, pronti a combattere per la propria terra e a difenderla a tutti i costi. E cosa ne dite? Non avreste fatto lo stesso?

Io non avevo molta voglia di correre alle armi, e non mi sembrava vero che appena due anni dopo il mio congedo, il 17 gennaio del 1941 venissi richiamato nella 63° Divisione di Fanteria, presso il 59° Btg mortai di Cagliari di stanza a Vercelli, dove arrivai il 24 gennaio. La mia Nella era incinta e prima di partire mi diedero un giorno di permesso per sposarmi. Frequentavo la chiesa ma Su Vicariu, Don Cicito, non ne volle sentire di sposarmi nell’altare maggiore, ma nella Cappella di Sant’Isidoro, protettore dei contadini, e a me non dispiaceva, in fondo ero un povero contadino anch’io.   

La mia divisione, che veniva chiamata “Cagliari” si era trasferita a Berat in Albania  il 31 gennaio 1941 ed era già era operativa sulla terribile linea del fronte tra Albania e Grecia dove arrivai il 19 settembre.

Le montagne albanesi e greche assomigliano al nostro supramonte o al carso, dove molti sardi sono morti nella grande guerra, brulle e aspre, così come i caratteri di quella gente, come noi povera, umile, ma orgogliosa. Quando sono arrivato i tedeschi già qualche mese, dall’aprile di quell’anno, avevano invaso la Jugoslavia, erano entrati in Grecia e con i loro panzer e il loro esercito, il 23 aprile l’avevano costretta alla resa e a firmare l’armistizio.

Ho passato due inverni terribili in Albania, quello del 1941 e quello del 1942: fame, freddo, pioggia, neve e fango, priogu in d’ònnia logu, vestiti inadatti e scarponi di carta. Ho visto morire molti miei compagni, soldati semplici come me, per congelamento e per fame. Ho sentito raccontare dai soldati che erano sul fronte greco albanese prima di me che la conquista di quei territori al confine tra Albania e Grecia, era stata una catastrofe militare, un fiasco, un azzardo che era costato migliaia di morti, e uno scorno per l’Italia, che dovette accettare i nuovi confini tra Grecia e Albania imposti dai tedeschi.   

Leggetelo nei libri di storia: sotto l’occupazione tedesca, nel 1941, la Grecia ha conosciuto una delle carestia più gravi della sua storia: la gente moriva per strada, i morti venivano sepolti segretamente per utilizzare le tessere annonarie, e si diceva che ad Atene nel mese di dicembre c’erano tra i 500 e i 1000 morti al giorno. Leggetelo nel mio foglio matricolare: ho partecipato ad operazioni di guerra in Albania Grecia dal 18 novembre 1942 all’8 settembre del 1943.  Erano mesi terribili e i soldati non sempre sono santi, anzi in guerra ci si dimentica di essere uomini, si diventa bestie e ci si abbrutisce. Migliaia di donne prese per fame vennero reclutate in bordelli per soddisfare soldati e ufficiali italiani. La sifilide dilagava. Io mi rifiutavo e qualcuno dei miei compagni mi prendeva in giro. Sembra incredibile, ma proprio per questo il comandante mi diede una licenza premio. Fu una breve pausa nella tragedia che stavo vivendo.

Eravamo alleati dei tedeschi: non c’era simpatia ne cordialità o stima tra i due eserciti.  Ci trattavano con disprezzo, come dei subordinati e in quell’anno e mezzo che sono stato in Grecia confesso che non condividevo i loro metodi. In quei mesi tra noi era subentrata la stanchezza per una guerra che non aveva portato ad alcuna conquista territoriale, capivo che i greci erano uomini come me, era la guerra che ci aveva resi nemici, e non vedevo l’ora che finisse per tornare al mio paese.

La nostra divisione era in Peloponneso quando arrivò la notizia dell’armistizio dell’8 settembre 1943. Non ci fu il tempo di ragionare, di avere ordini precisi da parte dei nostri comandi. In 24 ore i tedeschi, con cui eravamo alleati, ci considerarono traditori e nemici. Noi soldati fummo separati dagli ufficiali, e ognuno seguì il suo destino, in varie parti della Germania.

Il 9 settembre venni così catturato, disarmato, ed essendomi rifiutato di combattere nelle file dell’esercito nazista e del rinnovato esercito fascista repubblicano, sono stato deportato in un campo di concentramento in Germania, come la gran parte dei miei compagni d’armi. Ci chiamavano badoglien, “porci badogliani” in senso dispregiativo. Ci attribuirono un numero di matricola, ci diedero una baracca dove vivere, eravamo diventati numeri, manodopera a basso costo per l’economia germanica. Così sostituimmo i lavoratori tedeschi che potevano essere arruolati e utili per la guerra che ormai infuriava. Sono uno dei 650.000 soldati che i tedeschi non consideravano come prigionieri di guerra ma I.M.I, Internati Militari Italiani.

Posseggo ancora, e l’ho lasciato ai miei figli, il mio vorlaufiger frendempass, il passaporto temporaneo nr. 00671 che mi venne rilasciato a Berlino nell’agosto del 1944, dove eravamo internati dal 1944 nella parte orientale della città. Ero arrivato nella capitale tedesca il 31 ottobre 1943 e internato nello Stalag III D 387. Cosa ricordo di quella terribile esperienza? Ricordo la fame, il sovraffollamento, le baracche inospitali, i turni di lavoro massacranti, i controlli continui dei soldati della Wehrmacht e la loro violenza verso quelli che consideravano dei traditori, le malattie,  le epidemie quali tifo e dissenteria, il non sapere nulla delle nostre famiglie, il sentirsi abbandonati da tutti.

In quei mesi, non ci crederete, mi ero guadagnato la fiducia di un soldato  tedesco: un giorno, per la fame che mi tormentava, mi ero messo ad arrostire le interiora di un agnello morto e quasi decomposto…era una cordula in tempo di guerra e di prigionia, una nostra usanza di sardi. Il tedesco, che non aveva mai visto niente di simile, e che all’inizio sembrava schifato, la volle assaggiare. Da allora mi trattò sempre con riguardo.        

Passavano i mesi e la nostra vita si faceva sempre più difficile, anche perché Berlino subiva continui attacchi aerei da parte degli alleati. Nei primi mesi del 1945 ormai l’esercito dell’Armata rossa era alle porte della capitale tedesca e nell’aprile di quell’anno venni fatto prigioniero dai russi. Era il 24 aprile del 1945. L’8 maggio la Germania si arrese e per noi, per quelli che erano ancora vivi, aumentava la speranza del rientro in Italia. Ci vollero  alcuni mesi perché solo il 20 settembre 1945 raggiunsi il Centro di Assistenza Reduci di Bolzano. Ci arrivai con mezzi di fortuna, attraversando la Germania ormai occupata e in condizioni disastrose come tutti i paesi in guerra. Qui vennero distribuiti viveri, vestiario e molti di noi furono curati dalla Croce Rossa.

Il 30 novembre 1945 ero finalmente a casa, potevo riabbracciare Nella e conoscere finalmente mio figlio Gianfranco, che era nato il 30 giugno del 1941, e mia figlia Zaira, che era nata il 16 maggio 1943.. Avevo 25 anni, la vita riprendeva, avevo poca voglia di raccontare ciò che avevo passato, e pochi mi chiedevano o volevano sapere, come se la memoria l’avessi messa in un angolo del mio cuore. Eppure, così mi dicono in famiglia, a distanza di anni, la notte, come un incubo che si affaccia, pronunciavo parole in greco e in tedesco, le lingue della guerra e della prigionia.    

Tonino Sitzia

Racconto scritto in occasione del Giorno della Memoria 2022 (27 gennaio)

Ringraziamenti e riferimenti bibliografici

Ringrazio Marina Sarigu e Fabrizio Patteri per avermi consentito di consultare il foglio matricolare di Luigi Sarigu, e di ricostruirne la storia. Li ringrazio anche per avermi raccontato particolari della sua vita in tempo di guerra, ciò dimostra come la Memoria si possa trasmettere tra le generazioni e conservarsi viva. Per la costruzione del racconto, poiché i fogli matricolari non dicono tutto, o a volte sono lacunosi mi sono servito di letture e memorialistica che, finalmente fanno luce sulla storia degli IMI (Internati Militari Italiani), è stata per anni trascurata e in parte rimossa. Nella terribile conta della Shoah e nell’unicità dello sterminio del popolo ebraico, occorre aggiungere omosessuali, sinti e rom, testimoni di Geova, perseguitati per ragioni politiche o religiose, e tanti IMI, molti dei quali morirono nei campi di concentramento e di sterminio.

Alcuni titoli di riferimento:

Mario Cervi “Storia della Campagna di Grecia” (BUR)

Alessandro Natta “L’altra resistenza, I militari italiani internati in Germania”(Einaudi)

Pietro Tola “Il lager nel bosco, due anni di lavoro forzato nei campi di concentramento tedeschi” (CUEC)

Manlio Della Chiesa “Ricordi di prigionia 1943/45 (Mimesis)

Giovannino Guareschi  ”Diario Clandestino, 1943/45” (BUR)

Mario Avagliano e Marco Palmieri “Gli internati militari italiani Diari e lettere dai lager nazisti 1943-1945” (Einaudi)

Brunello Mantelli e Nicola Tranfaglia “Il libro dei Deportati” (Mursia) (contiene un articolo dello storico Aldo Borghesi “Sardi nella Deportazione”)

Si ricorda che presso l’ISTASAC  L’Istituto per la Storia dell’Antifascismo e dell’Età contemporanea nella Sardegna Centrale di Nuoro (diretto da Aldo Borghesi), è presente l’Atlante degli I.M.I. sardi, consultabile on line, sito in continuo aggiornamento che permetterà di completare e  aggiornare la Storia degli IMI sardi (con nomi e relative schede).

Gli Storici Aldo Borghesi e Marina Moncelsi sono stati ospiti di Equilibri in occasione della Giornata della Memoria del 2014 e del 2016.

A Luigi Sarigu è stata dedicata la Giornata della Memoria il 14 aprile 2014, con apposita cerimonia nell’Aula consiliare del Comune.

Tonino Sitzia

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1 commento

  1. Interessante e commovente racconto che mette in luce la storia poco conosciuta degli I.M.I., soldati italiani poco più che ventenni che il Terzo Reich privò di tutte le tutele garantite ai prigionieri di guerra dalla Convenzione di Ginevra e che perciò patirono fame, sofferenze e torture sia fisiche che psicologiche.

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