ARCHIVI
Nel cuore della città di Washington sorge, per una lunghezza di circa tre chilometri, il National Mall & Memorial Parks. La vasta e monumentale area, tra viali erbosi e grandi alberi, con al centro l’obelisco dedicato a George Washington, si estende tra il Lincoln Memorial a ovest, il Campidoglio (Capitol Hill) a est, la Casa Bianca a Nord, e il Jefferson Memorial a Sud. Attorno al Campidoglio hanno sede il Congresso e, poco distante, la Corte Suprema. In esso si concentrano tutta una serie di grandi musei, di grande grande interesse culturale. Solo per citarne alcuni: la National Gallery of Art, il National Museum of Natural History, Il Museo Nazionale dell’Aria e dello Spazio, National Museum of American History, lo Smithsonian National Museum of the American Indian, il Museo Hirshhorn e giardino delle sculture, il Museo Nazionale di storia e cultura afroamericana, per un totale di 12, tutti gratuiti e molto frequentati dai turisti e da scolaresche di tutte le età.
Pochi luoghi come il National Mall sono evocativi della Storia americana, così come il Cremlino a Mosca lo è per la Russia. In questo luogo si riflettono tutte le contraddizioni della società americana, vi è concentrato il Potere con le sue magnificenze e le sue miserie, e vi sono accaduti i grandi avvenimenti degli ultimi decenni del secolo scorso, e degli anni più recenti per esempio la March for Jobs and Freedom del 1963 quando Martin Luther King pronunciò il suo famoso I have a dream,oppure la grande Marcia contro la guerra del Vietnam del 1969, o ancora il giuramento dei Presidenti, come quello di Barack Obama, quando, il 20 gennaio 2009, il Mall si riempì di circa 2 milioni di persone.
Le contraddizioni cui si accennava sono particolarmente evidenti nel National Archives & Records Administration Building and Museum National Archives in Washington. Il museo, situato a nord del Mall, è collocato in un palazzo la cui monumentale facciata richiama quella di un tempio dell’antica Grecia, e contiene l’Archivio Nazionale degli Stati Uniti. Il richiamo al tempio greco, con la sua sacralità, vuole affermare l’idea che questo è il tempio della storia americana e delle sue conquiste in tema di libertà e diritti, contenute in circa tre miliardi di documenti, suddivisi per settori e per piani (Registri dei diritti, Atti pubblici, Centro Didattico, Teatro…).
All’ingresso del museo, immediatamente dopo l’entrata, si accede alla Rotonda, che gli americani chiamano Rotunda for the Charters of Freedom. Essa custodisce i documenti fondamentali, e in copia pergamena originale, della Dichiarazione di Indipendenza (4 luglio 1776), della Costituzione (Convenzione di Filadelfia, 1787 ) e la Carta dei Diritti , che delineano la struttura dello Stato federale, l’equilibrio e la separatezza tra i Poteri, i rapporti tra lo Stato federale e gli Stati della Federazione, compreso la Clausola di Supremazia (art. VI) che in sostanza stabilisce la supremazia dello stato federale sulle norme dei singoli stati. Al centro della Rotonda una delle 4 copie originali della Magna Carta Libertatum inglese (1215), la madre di tutte le costituzioni. Agli albori del contratto sociale che lega i rapporti tra in cittadini liberi (non i servi della gleba di quegli anni…) e il Potere dei sovrani e poi dei governanti. In particolare l’habeas corpus recita all’art.39 ““Nessun uomo libero sarà arrestato, imprigionato, multato, messo fuori legge, esiliato o molestato in alcun modo, né noi useremo la forza nei suoi confronti o demanderemo di farlo ad altre persone, se non per giudizio legale dei suoi pari e per la legge del regno”
Sempre nella Rotonda i diversi Emendamenti, i primi 10 che poi divennero 27, tra cui il discusso, e terribilmente attuale, secondo emendamento, secondo cui si è liberi solo quando si è in grado di difendersi da soli.
Nella sala dei diritti, a lato della Rotonda, ci sono una serie di vetrine dedicate alle lotte per l’emancipazione delle popolazioni afroamericane, dalle origini ad oggi, con frammenti di discorsi, e spezzoni video, di Luther King, Angela Davis, Malcom X, Rosa Parks, vetrine dedicate all’emancipazione femminile e alla lotta contro la discriminazione razziale nelle scuole. Mi ha colpito una vetrina dove campeggia in inglese questa scritta: “Per generazioni, agli americani di discendenti africani è stato impedito di esercitare i diritti garantiti a tutti i cittadini, e la nostra nazione ha lottato con il conflitto tra la promessa di libertà e la realtà della schiavitù e del razzismo. Dopo la dichiarazione che “tutti gli uomini sono nati uguali”, del 1776, come potrebbero gli Stati Uniti giustamente schiavizzare? Come potrebbe una nazione che dichiara che “tutti gli uomini sono uguali” usare gli schiavi per costruire la sua capitale?”
In un altro documento si legge “L’inizio del XX secolo ha assistito alla migrazione di centinaia di migliaia di afroamericani dal sud al nordest, al Midwest e all’ovest. Una delle cause principali di questa migrazione di massa è stata la continua violenza razziale, inclusi linciaggi e massacri razziali che hanno preso di mira i neri del sud, nonché il ritorno del Ku Klux Klan (un’organizzazione terroristica suprematista bianca apparsa per la prima volta poco dopo la guerra civile ) intorno al 1920. Questo periodo faceva parte di quello che Rayford W. Logan definì il “nadir” della storia afroamericana iniziata con il crollo della ricostruzione nel 1877. Durante questo periodo, le conquiste politiche e legali ottenute dagli afroamericani durante la ricostruzione furono smantellate, in particolare negando agli afroamericani il diritto di voto e legalizzando la segregazione razziale, in particolare nella decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti del 1896 Plessy v. Ferguson, che rese legale la segregazione razziale fino al 1954. Oltre a coloro che subiscono queste ingiustizie politiche e legali, migliaia di africani americani furono impiccati, bruciati a morte, uccisi a colpi di arma da fuoco, torturati, mutilati e castrati da folle bianche che quasi mai furono perseguiti per i loro crimini. Uno dei leader nella lotta contro il linciaggio era Ida B. Wells-Barnett, autrice di The Red Record”.
Non so se ci sia in Italia un Archivio così documentato della nostra storia costituzionale, su cui giovani e meno giovani possano studiare e riflettere, ragionare su quali fatti e avvenimenti hanno portato alla legge fondamentale dello Stato, e questo è l’elemento positivo che ricavo dalla visita a questo importantissimo museo americano (consultabile anche on line). Ma c’è da riflettere su come il Diritto e l’Economia non vadano di pari passo, di come la Giustizia formale non coincida con la Giustizia sociale, che è come una lunga marcia in tante parti del mondo.
Non appena esco dal museo, la gerarchia del lavoro in una società a capitalismo avanzato come negli USA, appare nella sua inesorabile evidenza: molte tende piantate nei giardini, dove vivono poveri e senza lavoro, anche appartenenti alla middle class precipitati nella scala sociale a seguito del Covid, ai margini di una società opulenta, muratori centro americani e sudamericani, uomini e donne di colore addetti alle pulizie, lavoratori addetti al rifacimento delle strade in gran parte peruviani, equadoregni, cileni, uomini e donne di colore addetti alla vigilanza nelle sale dei musei, e man mano che si sale nella scala sociale, sono ancora i bianchi ad avere in mano le leve del potere.
FRONTIERA
In un grande edificio in mattoni rossi in stile neo-rinascimentale, ha sede Il National Building Museum di Washington, che un tempo ospitava l’Istituto di Previdenza Sociale degli Stati Uniti. Le sue grandi sale oggi sono dedicate all’evoluzione delle tipologie abitative negli USA, all’architettura, all’ingegneria e al design.
Incuriositi più che altro dal voler vedere la magnifica Great hall e girovagando per le sale, siamo stati attratti da una mostra temporanea (aperta il 6 novembre scorso e che chiuderà nel novembre 2022), dal titolo “The Wall/El Muro”, dedicata soprattutto al muro di confine tra Usa e Messico, ma che spazia in altri contesti del mondo, in cui sono stati innalzati muri e confini dalla Turchia al canale della Manica, da Israele a Lampedusa alla Polonia, dalla Cina a Berlino, dall’India al Bangladesh.
La curatrice della mostra Sarah A. Leavitt scrive «I confini sono luoghi inventati e immaginari cambiano nel tempo e sono controllati in modo diverso nel tempo. Ciò che sta accadendo al nostro confine è importante ed era importante iniziare a raccontare questa storia. È a questo che dovrebbero servire i musei: a guidare questo genere di riflessioni”.
Si sa che la Frontiera è un mito americano legato alla conquista del West, teorizzato dallo storico evoluzionista Frederick Jackson Turner, il quale in sostanza diffuse l’idea che “più si va verso ovest, più si è americani”, con tutto il corredo di violenza, individualismo, spregio delle regole e dello stato, ai danni dei nativi americani. I coloni europei, secondo tale concetto, si plasmarono americani, spostando sempre più il limite verso ovest. È noto come il diritto di portare le armi per difendersi dagli indiani d’America, sia all’origine del secondo emendamento e che tale diritto sia poi diventato strutturale nella cultura americana. I 3.326 chilometri di frontiera tra Stati Uniti e Messico è una invenzione dei due governi per mettere fine dei due anni di guerra del 1846/ 48, in seguito a ai quali (Trattato di Guadalupe – Hidalgo) il Messico perse quasi la metà del suo territorio, e creando enormi problemi, di natura economica e sociale alle popolazioni indigene che non avevano nemmeno partecipato alla guerra, e che videro dividersi il proprio territorio.
Ora nella linea di confine tra il Messico e gli Stati Uniti un muro impedisce ai migranti del Sud di entrare in territorio statunitense, e ancora oggi, in una scheda presente nella mostra, si sottolinea come il governo americano continui a usare il termine “alien” in riferimento ai migranti illegali che entrano negli USA, con tutti i connotati negativi che la parola suggerisce, sebbene in alcuni stati, e tra qualche giudice della Corte Suprema, per evitare tale parola oggettivamente offensiva, sia preferibile definirli a “indocumentati” o “non-cittadini”. “Noi, affermano i curatori della mostra, usiamo il termine di “persone migranti”.
Quando, alla fine della Guerra Fredda risuonavano le parole “Mr. Gorbačëv, abbatti questo muro!” nel mondo c’erano 15 muri che separavano le nazioni, oggi se ne contano 70 e continuano ad aumentare, e mentre le ondate migratorie, per ragioni economiche e per i cambiamenti climatici, tenderanno ad aumentare, e saranno nell’agenda di tutti i paesi del mondo, nessuno alza la voce per dire “abbattete questi muri! “
Tonino Sitzia
3 giugno 2022