Non c’era vittima della statale 291 che non gli appartenesse. Il sangue e le croci di quella strada che da Sassari conduce ad Alghero venivano addebitati sul suo conto come la prassi obbligata di un’imposta. A nessuno certo sarebbe venuto in mente di dirglielo apertamente, tutto era velato, tutto era sospirato, tutto era sottinteso. Parole trasparenti, più volgari e pesanti di un insulto. Ma chi gliene voleva e perché? Non era forse sacrosanto e giusto che egli difendesse la sua terra dal nuovo tracciato della strada che l’avrebbe spezzata in due e spazzata dalla geografia per sempre? Non era forse giusto che egli le tentasse tutte ma proprio tutte per scongiurare sino all’ultimo quella sciagura? Non era forse vero che quel paradiso di terra come la mappa di una memoria conservasse pagine importanti della sua vita tante erano le sue stanze?
Filari di peri a perdita d’occhio l’avevano visto attraversare le stagioni dell’esistenza, lo avevano visto cadere e rialzarsi, cadere ancora, precipitare e ancora rialzarsi. Peschi e albicocchi lo avevano festeggiato nelle notti più serene dell’estate. Pietre e rovo erano stati testimoni delle sue tenerezze nei convegni d’amore. Ma poiché la 291 così com’era mieteva più vittime d’una guerra la nuova strada rettilinea e sicura doveva passare proprio di lì, sui circuiti scoperti dei suoi anni, sulle sue foto d’altri tempi, sulle sue acque e le sue pietre amiche. Piano piano una sorta di sottocoscienza bieca e ostile vibrava in lui il fendente della responsabilità e della colpevolezza come se ogni incidente fosse un suo incidente, causato da lui, e dagli altri come lui che si opponevano alla nuova e piana e scorrevole direttissima. Oramai il danno era fatto, la frutta gli era stata avvelenata e sapeva di funerale così come l’aria e l’aia e la terra stessa e non vi era insetto o uccello sul ramo che non glielo rammentasse e non vi era più pozzo o cisterna in grado di sopportare il carico di tutti quei litri e litri di dispiacere.
All’arrivo degli ingegneri protestò il suo sdegno e il suo dissenso, si scardinò i nervi, si spolmonò nell’indicare la variante, l’alternativa buona e indolore per tutti, poco più in là, dove le pietraie si susseguono alle pietraie. Ma li conoscete quelli, sollevarono la guancetta nel tipico mesto sorriso del burocrate coi calli nello stomaco avvezzo ai piagnistei e alle sceneggiate. Ingegner non porta pena signore mio, sistemarono i paletti e scomparvero. Restò solo accanto al suo Traineddu la cui acqua scorreva ancora ignara di cambiamenti e devastazioni. Ma la sua figura seduta sul tronco davanti al fiumiciattolo, come certi morti di mafia, poteva già ben dirsi imbevuta nel cemento. Egli era incastonato nel viadotto. Lì sarebbe sorto il più centrale dei piloni.
Cause naturali fecero in modo che egli salutasse il mondo senza assistere allo scempio finale. Mia madre andava a fargli visita quasi ogni giorno inerpicandosi per quelle scalette mobili e insicure che servono oggi per mettere un fiore: “Tira!” – “Più avanti!” – “Molla!”, mi dava ordini dall’alto sul posizionamento della scala. La città è cambiata, si va al camposanto col linguaggio della vela, si scalano pareti per inseguire cari irraggiungibili persino nei loro dormitori. Comunque la campagna destinata a sventramento rimase qualche anno ancora in attesa delle ruspe come una condannata nel braccio della morte, i paletti restarono lì ad arrugginire, i nastri bianchi e rossi a sventolare lungo tutta la delimitazione diagonale.
Strade ed autostrade e superstrade e viadotti e cavalcavia cambiano la vita. Scorciatoie miracolose traducono in realtà progetti che parevano impensabili. È innegabile il prodigio di un rettilineo o di una panoramica. Io stesso ne constato e ne traggo ogni giorno i benefici. Il loro più evidente pregio è che ancor prima di un risparmio materiale essi rappresentano la soluzione di un problema mentale: due punti lontani divengono vicini grazie alle alchimie dell’uomo col suo spazio. Ma all’importanza delle ore guadagnate se ne sovrappone un’altra: l’automobile che sfreccia liscia e veloce come un raggio, gira le sue ruote in un’area magica, dove il passato si è nascosto ma è presente, dove un tempo si è sovrapposto a un altro tempo come strati di foglie che ricadono su altre foglie. E questo ovunque. Non c’è altro. Fuorché l’epilogo.
Dopo rinvii e ricorsi vennero dunque le ruspe, squadre di operai e di tecnici invasero ogni cantuccio di quella storia abbattendo e divellendo ogni cosa. Portavano a casa un salario onestamente guadagnato sul campo, manovrando camion e trivelle come sempre, come da sempre facevano, come faranno ancora. Sia che si trovino davanti a un tesoro archeologico, sia davanti allo stesso Eden essi vanno per la loro strada. Sono gli ultimi a porsi domande. La loro causa è il lavoro. Di fronte a questa fede ogni altra cosa passa in secondo piano. Grazie a questo cavillo l’intera isola si è posta in vendita. Che si proceda dunque. I ciliegi offrirono il collo alla motosega con la dignità dell’albero celebrato dal sole. Era di giugno e naturalmente gocce di sangue pendevano dai loro rami. I pozzi vennero soffocati, il terreno desertificato divenne simile a un campetto di calcio polveroso.
Vi ritornai quando tutto era finito. Il cancello era stato lasciato in piedi a centrocampo e non delimitava più nulla, arbitro di una partita tra spettri. I camion scorrazzavano felici tra i piloni carichi di macerie d’ogni sorta e d’ogni sorta di legnami. La grande strada era nata ed era lì enorme e altissima, lì dove tutti possono vederla e percorrerla e correndo verso l’aeroporto e il mare scoprirne i vantaggi. Ma se per caso, proprio per caso, dovessero, rallentando appena, scorgere di sotto la figura con la cesta in mano e la paglietta in testa aggirarsi serena tra i filari di peri e i melograni, se dovessero scorgere quell’uomo, ebbene che lo salutino per me, per me che non godo più del privilegio di vederlo.