18 Dicembre 2024
No menu items!
HomeRubricheRecensioniGiornata della Memoria 2018: "Festins imaginaires" (Banchetti immaginari) Le ricette per sopravvivere...

Giornata della Memoria 2018: “Festins imaginaires” (Banchetti immaginari) Le ricette per sopravvivere in un film di Anne Georget

La copertina del ricettario di Edith Peer (Jewish Museum di Sydney)

La memoria del cibo: “Festins imaginaires” (Banchetti immaginari)

Sulla neve, a distesa come un sudario, si stagliano le baracche. Alberi, come allungate ombre nere, fanno da sfondo. Il silenzio è rotto dal rabbioso latrare dei cani e dalle frasi, sussurrate, di donne che, come una litania, ripetono ricette a loro familiari, nella babele di linguaggi dei campi di sterminio nazisti.
Sono le prime immagini del film documentario Festins Imaginaires (Banchetti Immaginari ) della regista francese Anne Georget presentato alla 65° Berlinale nella sezione Kulinarische Kino, proiettato al Festival di Trento “Tutti nello stesso piatto” del 2015 dall’Associazione Mandacarù e a Cagliari dall’Associazione Sucania Bottega del Mondo in un’analoga iniziativa organizzata di Cagliari nel maggio del 2017.
Il film è stato al centro della Giornata della Memoria che si è tenuta ad Elmas nel pomeriggio del 27 gennaio 2018, a cui ha dato il suo contributo l’antropologa del cibo Alessandra Guigoni. Nella mattinata il documentario era stato proiettato nell’aula magna del Liceo Scientifico e classico “Euclide” di Cagliari.
Sono le prime immagini girate a Ravensbruck, il campo de “Il cielo sopra l’inferno”, raccontato da Sarah Helm, quello in cui passarono 130.000 donne e ne morirono 90.000: casalinghe, prostitute, zingare, politiche, insegnanti, comuniste, testimoni di Geova, rom, donne provenienti da diversi paesi.
Il film si serve, come sottofondo, delle voci narranti femminili, che suggeriscono ricette e fanno da contrappunto alla narrazione, alle testimonianze, ai documenti, come il ricettario di Edith Peer, che con un gruppo di ebree ungheresi, annotò su carta rubata o reperita per caso, i piatti preferiti da lei e dalle compagne, e come venivano preparati, dal “cavolo della Transilvania” agli “gnocchi di formaggio” o i “Funghi ripieni di fegato di pollo”, o ancora “Bistecca di vitello ripiena”, “Marquise au chocolat”, “Torta nuziale speciale” e altre prelibatezze. Una copia del quaderno è oggi conservato nel Jewish Museum di Sydney.
Altre raccolte riguardano Christiane Hingouet internata a Lipsia e ancora vivente, i foglietti collezionati da un gruppo di uomini prigionieri a Flöha (Sassonia) tra cui il resistente Marcel Letertre, il telo iscritto nel gulag di Potma (Mordovia, Russia) da Vera Bekzadian e il quadernino delle rêveries culinarie del sergente Warren Stewart prigioniero a Kawasaki (Giappone) durante la seconda guerra mondiale.
Il racconto è accompagnato da interviste a storici, linguisti, neuroscienziati, filosofi, da uno schef stellato, Olivier Roellinger, che si interrogano sul senso di questi documenti, straordinario esempio di come, anche nelle condizioni più terribili, si possano trovare e inventare modalità di sopravvivenza, di condivisione, di scambio di ricordi e memorie, una forma di resistenza alla morte imminente, uno spazio di vita nella non vita dei campi. Non è difficile immaginare che molte di queste internate, dopo essersi scambiate le ricette o dopo averle trascritte, abbiano subito la violenza degli esperimenti medici, siano state sottoposte alla sterilizzazione e alla tortura, siano passate per i forni e abbiano trovato la morte.
Nello spazio del disumano, creatosi nel cuore della civiltà occidentale, le donne e gli uomini, si ricavarono spazi di umanità, e il cibo, o la sua immaginazione, attraverso la parola orale e scritta, fu uno dei modi per sentirsi vivi, quello di più immediata condivisione senza particolari mediazioni. Forse solo la musica ha la stessa capacità di mettere in corrispondenza l’umanità, più dei libri, che possono essere ascoltati ma richiedono la capacità di lettura dei segni, mentre il cibo può essere raccontato da tutti, richiama l’infanzia e l’appartenenza ad un mondo e a un luogo.
Il lungometraggio inserisce la testimonianza di Vera Bekzadian deportata nel 1938 nel gulag di Potma, in cui restò per nove anni. Negli intervalli dei lavori forzati, a -30°C, nella gelida foresta della Mordovia, Vera trascriveva le ricette in dei panni e pezzi di stoffa rubati. I documenti della Bekzadian e del sergente Warren Stewart prigioniero a Kawasaki durante la seconda guerra mondiale, seppure realizzati in contesti storici e temporali diversi da quelli redatti nei campi di sterminio nazisti, dimostrano come negli universi concentrazionari di ieri, e purtroppo anche di oggi, si ripetano non solo modalità di sottomissione e persecuzione dell’uomo sull’uomo, nel nome di un sistema o di una ideologia, ma anche forme di resistenza e di sopravvivenza, individuali o di gruppo per conservare la propria e l’altrui memoria.

Tonino Sitzia

Articoli correlati

Rispondi

Please enter your comment!
Scrivi il tuo nome e cognome

TAG

I più letti