Giorni sono stati, quasi un secolo,
dilatati e sgomenti
sospesi e affranti
con frammenti di popolo
a ritrovarsi, come in trincea,
a ritrovare un comune linguaggio
nei segni e sentimenti e gesti,
giorni di sospensione,
con flash di immagini,
cadute ed eroismi,
bianchi fantasmi salvifici,
e pezzi di memoria
sacrificati,
e balconi festanti
a esorcizzare la paura,
talismano per rinascere.
Poi una mattina mi sono alzato
Bella ciao a cantare,
e come un risveglio
da albe nebbiose
son riapparse quelle immagini
sbiadite eppur vibranti
di uomini e donne,
giovani e staffette partigiane
a scegliere la macchia,
a percorrere le valli
e le città aperte,
epopea di riscossa
a sabotare le ingiustizie,
verso un mondo nuovo,
e molti sono rimasti
nei muri crivellati
e nei cimiteri di campagna
lontani dai propri,
e noi oggi e di questi tempi
come un viatico nel cammino
ne abbiamo bisogno,
come nani
sulle spalle di giganti,
perché da loro
siamo nati.
Tonino Sitzia
1 maggio 2020
Ci interroghiamo spesso sulla funzione della poesia oggi e da sempre, e sul difficile rapporto tra tecnica e senso, cioè tra cosa si vuole dire e come, da cui deriva il suo particolare linguaggio.
Nella poesia la parola si carica di sovrasenso, attraverso strumenti che le sono propri: metafore, analogie, sospensioni, memoria, immaginazione, ecc… Dunque essa sfugge ad ogni intento didascalico, predicatorio, politico, sentimentalmente di maniera. In sostanza la poesia è contro il potere in senso lato, diventa messaggio universale.
Garantire l’equilibrio tra il come e il cosa è difficilissimo e solo i grandi poeti ci riescono. Gli altri, noi comuni mortali, ci proviamo, ma il più delle volte non ci riusciamo.
Ciò non significa che dobbiamo arrenderci: tra la gramigna a volte spunta qualche fiore, quindi continuiamo a farlo perché ne abbiamo bisogno, ma affinché il fiore diventi un prato occorre leggere molto e studiare i grandi poeti di tutto il mondo.
A proposito di Poesia e Resistenza cito un frammento del discorso ufficiale di Salvatore Quasimodo a Stoccolma l’11 dicembre 1959, quando venne insignito del Premio Nobel per la Letteratura: “La Resistenza è una sicurezza morale, non è una poetica; né il poeta, dalla sua sostanza, governa parole per punire qualcuno. Il suo giudizio è di ordine creativo, non si formula in decalogo per inventare “vaticini”.
Gli europei conoscono la misura di questa Resistenza; è davvero la sezione aurea della coscienza moderna. Anche se urla, il nemico della Resistenza è oggi un’ombra con una debole legge: la sua voce è più impersonale dei suoi propositi. La sensibilità del popolo non s’inganna sulla condizione del poeta, né su quella del suo avversario. Quando l’antitesi si accresce, è la poesia che sostituisce il pensiero subordinato del politico, che della poesia fa un’idea da spegnere o da sfruttare”.
Lo spirito della lotta partigiana, delle speranze, del sacrificio, della libertà conquistata è riassunto non solo nella poesia ma anche nella fotografia che l’accompagna. Tre donne combattenti avanzano sicure davanti a un gruppo di uomini, col sorriso della vittoria sui loro visi.
Le donne che parteciparono alla Resistenza furono più di 70000. Nell’immediato dopo-guerra le donne italiane conseguono il diritto di voto, pieno riconoscimento della loro matura coscienza politica, affermato nella Costituzione italiana che, non dimentichiamolo mai, è frutto della Resistenza.
Ecco un genere di poesia difficile da fare – quella che rievoca la storia con i suoi drammi; che canta di lavoro, di fatica, di vicende sociali…
Stretto e meno facile cammino è quello della così detta poesia ‘sociale’ (impegnata, come i suoi autori, si sarebbe detto un tempo). La poesia, infatti, è gelosa di una sua enigmatica ‘autonomia’. Del suo segreto sottile e sfuggente – riottosa com’è a divenire strumento di qualsivoglia causa più o meno nobile che sia.
Dunque, ben riusciti questi versi.