Un grazie particolare a Giacomo Sitzia – che si trova a Whashington come ricercatore nell’ambito delle neuroscienze – per il suo articolo sulle recenti vicende americane con il titolo “I dieci giorni di Whashington”.
Fatti drammatici e tragici, ma anche esaltanti per i movimenti che sono lievitati dalle città statunitensi. Si tratta di una testimonianza diretta e importante – una finestra, aperta per noi qui, e un vento che ci viene dal mondo “grande e terribile”.
Se considero gli Usa, le loro città, percorse da questi movimenti, oltre alla tristezza e all’indignazione per la tragedia – l’assassinio di George Floyd – da lì dovrebbe arrivarmi anche dell’ottimismo che però sento stenta a farsi strada.
Grandi e importanti sono sempre stati i movimenti negli Stati Uniti d’America. A volte imponenti e inaspettati, hanno lasciato un segno all’interno e fuori di quel grande Paese. Tuttavia non bisogna dimenticare che i movimenti (le masse che si muovono) hanno una dinamica accumulo-espansiva e poi man mano vanno scemando. Per loro natura sono poco strutturati mentre il potere, segnatamente quello Usa, è fortemente strutturato nelle sue articolazioni che comunque si rifanno ad un centro statalmente forte. Le ondate dei vari movimenti passano – e anche se durassero infine non approdano nei luoghi istituzionali dove si decidono scelte e politiche – il potere rimane.
Non ci sono in Usa forze politiche ‘antagoniste’ capaci di darsi struttura che duri nel tempo, oltre le due forze (partiti) tradizionali della borghesia che concorrono alla elezione del Presidente e delle diverse Assemblee dell’Unione Federale. Non si riesce neppure ad organizzare il coinvolgimento della gran parte degli elettori che non richiedono la scheda elettorale.
Ogni tanto si evoca Martin Luther King, il suo sogno, i suoi discorsi e i movimenti da lui suscitati, quasi però viene rimosso il fatto che fu assassinato. Molto limitato e a fatica tenta di farsi strada – un sogno, appunto – se la questione razziale è tutt’oggi calda e viva.
E d’un altro nero, del quale si cerca di parlar meno, Malcom X – assassinato anche lui, con il quale mi sento più in empatia rispetto al primo. E poi i “fratelli Soledad” – assassinati pure loro e Angela Devis…
E che dire dei Presidenti? Kennedy – tragico e assassinato pure lui, ma che io ritengo sopravalutato. Presidenti che non modificano la sostanza e il carattere di fondo violento e bellicoso di quel Grande Paese. Kennedy, ormai un mito con retorica annessa…
E poi Nixon e Reagan, Busch padre, Busch figlio e i più presentabili Carter e Clinton e Obama – tutti figli privilegiati di quel Paese così violento all’interno e bellicoso all’esterno. Bastano i nomi di Korea, del Viet-Nam, dell’Irak, di Afganistan…
“Negli Stati Uniti la convinzione di vivere in una società di uguali e profonda tanto quanto l’abisso tra ricchi e poveri”
Il potere nelle società occidentali è articolato e strutturato (le casematte del potere, efficace metafora di Antonio Gramsci).
Potere che ha i suoi intellettuali, i suoi giornali, i suoi centri di elaborazione culturale, che controlla il tempo di non lavoro, il così detto tempo ‘libero’, oltre all’apparato economico-finanziario e a quello militare coercitivo.
Infine gli Usa sono detentori d’una potenza bellica mai vista nella storia dell’umanità. Con le sue flotte domina i mari e gli oceani.
Quanto sopra sono soltanto alcuni spunti, riflessioni frammentarie, magari utili per precisazioni e altre considerazioni.