Manlio Graziano, politologo, collaboratore di Limes, docente di Scienze politiche alla Sorbona, apriva un numero de “La lettura”, l’inserto domenicale del Corriere dela Sera (29 dicembre 2024), con un lungo articolo dal titolo “La corsa della Storia”. I dati citati su guerre e armamaenti sono impressionanti, per esempio “Dal 2001 al 2023 vi sono stati nel mondo 2.929 conflitti, con almeno 25 morti ciascuno, quasi 130 all’anno (fonte Uppsala Conflict Data Programm)”.
Dunque la guerra sembra il suggello di questo primo quarto di secolo, e condiziona pesantemente la percezione del mondo a livello globale: si fanno meno figli, la ricchezza è in mano di ristrette elites economiche, aumentano le diseguaglianze, i flussi migratori, diminuiscono i servizi sociali, grandi catastrofi naturali documentano gli irreversibili mutamenti climatici, come dimostrano le recenti tragedie di Valencia e Los Angeles.
Vengono smentite le magnifiche e progressive sorti dell’umanità che sembravano caratterizzare gli ultimi anni novanta del secolo scorso, quando, dopo la caduta del muro di Berlino, il politologo americano Francis Fukuyama proclamava, con ottimismo degno di miglior causa, la “Fine della storia” e la vittoria definitiva del Capitalismo e della Democrazia. La storia viceversa ha ripreso a correre e, come un treno impazzito, appare incontrollabile. Un’ondata di pessimismo si è diffusa nel mondo, favorendo le autocrazie, i populismi, l’affidarsi agli uomini o donne della provvidenza che di volta in volta si presentano nel corso della storia, e che ultimamente prendono le sembianze dei miliardari del hi tech.
Forse la coscienza della Catastrofe, il punto di non ritorno, può essere il modo per uscirne ed evitare il caos. È proprio sul fronte dei mutamenti climatici che essa si manifesta con più evidenza, e c’è da chiedersi se l’uomo non vada verso l’autodistruzione, mentre la Natura, seppur ferita, continuerà il suo corso.
Il 2024 è stato l’anno più caldo di sempre secondo i dati Copernicus, l’Organismo della Unione Europea che esamina i dati sullo stato del Pianeta e del suo ambiente, e per la prima volta si sono superati l’1,5° C per 12 mesi consecutivi, soglia sopra i livelli pre-industriali stabiliti dagli accordi di Parigi. I cambiamenti climatici sono in atto, i ricorrenti fenomeni estremi ne sono uno tra gli indicatori, e gli attuali sistemi politici non sono in grado di affrontare gli enormi problemi che l’umanità deve affrontare.
C’è una causa? Quali sono le conseguenze? C’è un metodo per interpretare i fenomeni? C’è una soluzione? Senza troppi fronzoli e senza lasciarsi prendere dall’ansia catastrofica, il filosofo giapponese Saito Kohei, nel suo libro/saggio Il Capitale nell’ Antropocene, celeberrimo in Giappone (mezzo milione di copie vendute) e ormai in tutto il mondo, cerca di rispondere a quelle domande, da una originale prospettiva marxista, citando e analizzando alcuni manoscritti di Marx in parte sconosciuti, e prefigurando una sorta di Comunismo della Decrescita, perché ormai, richiamando la definizione di Paul Crutzen, premio Nobel per la Chimica nel 1995, siamo entrati “In una nuova èra geologica, che egli definisce “Antropocene”, un’ èra cioè, in cui le tracce dell’attività economica umana hanno invaso l’intera superficie della terra”.
Alla prima domanda sulle cause della attuale situazione Saito Kohei risponde secco: è il Capitalismo. “Se guardiamo alla storia del capitalismo – si legge nel paragrafo “La profezia di Marx sulla crisi ambientale” – la speranza che gli Stati e le grandi imprese intraprendano una battaglia su larga scala contro i mutamenti climatici appare molto labile. Invece di intervenire, il capitalismo non ha fatto che depredare e traslare/esternalizzare i costi…il capitalismo dirotta altrove le sue contraddizioni e le rende invisibili. Tale processo, però, non fa che aggravarle conducendo necessariamente a una situazione invischiata e preoccupante”
Non mi soffermerò sui mali storici del Capitalismo, analizzati nei capitoli del libro da pag. 1 a pag 110, oggetto di studi da parte dei più attenti studiosi del Colonialismo, da Fanon, a Said, a Galeano, fino a Piketty, e che meriterebbero un approfondimentoi a sé, quanto piuttosto sulla seconda parte quando Saito Kohei sottolinea come nel pensiero di Marx, a partire dal 1868, ci sia stata un’evoluzione in chiave ecologica e di sostenibilità sull’idea del sistema terra, non apparsa chiaramente nel Marx giovane, che nel 1848 aveva portato al Manifesto del Partito Comunista È quanto emerge dai documenti di un pool di studiosi internazionali, di cui fa parte anche Kohei, riuniti nel Mega 2 (Die Marx-Engels-Gesamtausgabe), che lavora ad una quarta edizione delle opere di Marx.
Di particolare interesse gli “Appunti di ricerca, in cui Marx aveva l’abitudine di riportare meticolosamente le note essenziali nei suoi studi” (pag.120). Erano gli appunti che egli prendeva nella libreria del British Museum, dove, a causa della sua indigenza e impossibilitato ad acquistare libri, si recava per studiare. Nel primo libro del Capitale (1867), oltre alla spietata critica alla società borghese si nota, secondo Kohei, un produttivismo e un eurocentrismo, che saranno anche oggetto di critica da parte di Edward Said, il quale scrive che “Le analisi economiche di Marx sono del tutto compatibili con la visione d’insieme dell’Orientalismo…”(In “Orientalismo”, pag. 155-156). Nel primo libro del Capitale si legge la frase seguente “Il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire”. Una visione troppo lineare del progresso, come se lo sviluppo dei diversi popoli nelle varie latitudini debba passare fatalmente e meccanicamente tra le forche caudine del capitalismo, come sacrificio necessario al socialismo. Secondo Kohei Marx, nella seconda parte della sua vita, inflenzato dagli studi di George Ludwig von Maurer, di Justus von Liebig, e Karl Fraas si mostra fortemente interessato alle tematiche ecologiche e a come erano organizzate le comunità dei popoli germanici, le comunità precapitalistiche non occidentali, per esempio quelle dei nativi d’America, o dell’India, o dell’America Latina, e delle comunità rurali della Russia, i mir. Marx intuisce e si interroga se quelle comunità, con le loro organizzazioni solidaristiche e rispettose del rapporto uomo natura, non attestino come ci può essere la possibilità di passare al comunismo senza l’attraversamento nella fase matura del Capitalismo.
Mutuando il concetto di frattura metabolica di Liebig Marx arriva a scivere (Il capitale, Libro III: col capitalismo si è creata “una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita»); oppure (Il capitale, Libro I) “la produzione capitalistica . . . turba il ricambio organico fra uomo e terra»). Quelle comunità rurali praticavano un’economia stazionaria, non basata sulla frenetica ideologia della crescita tipica del capitalismo moderno e contemporaneo. Non si tratta di un ritorno alla natura, e la stessa tecnologia può essere al servizio di un nuovo modello di società. Dopo il fallimento del capitalismo e del socialismo reale, vi è la ricerca di un nuovo modello, per far fronte alla crisi climatica in corso, una terza via che Kohei chiama Comunismo della decrescita. Non può esistere una decrescita e decelerazione o in seno al Capitalismo perché i due termini sono incompatibili: “Il capitale è un moto perpetuo teso all’incremento costante del valore. Investe e reinveste nella produzione di beni e servizi che producono nuovo valore, aumentino il profitto, in un processo in continua espansione…”
“Si può tranquillamente affermare che quanto è «comune», costituisce la chiave capace di fornire una terza via in opposizione al neoloberismo americano e alla nazionalizzazione sovietica. Una chiave che non punta cioè a mettere un prezzo ad ogni cosa, come nella logica assolutistica di mercato, ma nemmeno a statalizzare tutto come nel socialismo di stampo sovietico La terza strada del «comune », punta a considerare l’acqua, l’elettricià, l’abitazione, le cure mediche e l’educazione come beni pubblici, che siamo chiamati a gestire in maniera democratica” (pag.115).
Già ci sono segnali in tal senso. Uno per tutti, ricorda Kohei: la Via Campesina (La via dei Contadini), una strada che il Sud del Mondo indica al Nord Capitalistico: “La Via Campesina è costruito su un forte senso di unità e di solidarietà tra i produttori agricoli di piccole e medie dimensioni del Nord e del Sud del mondo. L’obiettivo principale del movimento è quello di realizzare la sovranità alimentare e fermare il processo distruttivo neoliberista. Si basa sulla convinzione che i piccoli agricoltori, tra cui contadini pescatori, pastori e popoli indigeni, che costituiscono quasi la metà della popolazione mondiale, sono in grado di produrre cibo per le loro comunità e di nutrire il mondo in modo sano e sostenibile. Le donne svolgono un ruolo cruciale nel lavoro Via Campesina. Secondo la FAO, le donne producono il 70% del cibo sulla terra, ma sono emarginati e oppressi dal neoliberismo e patriarcato. Il movimento difende i diritti delle donne e dell’uguaglianza di genere a tutti i livelli. E ‘lotta contro tutte le forme di violenza contro le donne.”
Questo e molto altro nell’interessantissimo libro di Saito Kohei.