5 Febbraio 2025
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I testi delle Letture per il Giorno della Memoria ad Elmas (Teatro Maria Carta, 26 gennaio 2025)

Voi che vivete sicuri

nelle vostre tiepide case

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo,

che lavora nel fango

che non conosce pace

che lotta per mezzo pane

che muore per un sì o per un no.

Considerate se questa è una donna,

senza capelli e senza nome

senza più forza di ricordare

vuoti gli occhi e freddo

il grembo come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

vi comando queste parole.

scolpitele nel vostro cuore

stando in casa andando per via,

coricandovi alzandovi.

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

la malattia vi impedisca,

i vostri nati torcano il viso da voi.

Primo Levi, Se questo è un uomo, Torino, Einaudi 1956

“Portati alla stazione centrale, nei sotterranei erano preparati dei vagoni: a calci e pugni fummo caricati dalle SS e dai loro servi. Come si sta dentro un vagone? Il viaggio è un momento importantissimo – chiave della prigionia; il viaggio durò una settimana; eravamo sprangati dentro un vagone dove non c’era niente, con un secchio per i nostri bisogni, che ben presto si riempì; non c’era luce, non c’era acqua, c’eravamo solo noi con la nostra umanità dolente. Io, insieme agli altri, vissi tre fasi: la fase del pianto; la seconda fase, quella surreale: gli uomini pii si riunivano al centro del vagone pregavano e lodavano Dio; era un momento di tensione fortissima che ci teneva uniti, mentre altri uomini ci portavano a morire. La terza fase è quella del silenzio: persone coscienti che andavano a morire; noi lo sentivamo che sarebbe stato così. Non c’era più niente da dire. Gli occhi che comunicavano al vicino: “Sono qui con te, ti voglio bene!”, ma non c’era più niente da dire, non c’era più bisogno di parlare. Furono gli ultimi miei giorni con mio padre, e devo dire che la fase del silenzio è quella che è stata di massima trasmissione tra noi; poi a questo silenzio così importante, c’è quel rumore osceno e assordante degli assassini intorno a noi, quando arrivati a quella stazione preparata per noi, dai nostri assassini, già da anni, Birkenau – Auschwitz: la porta si aprì e con grande violenza fummo tirati fuori tutti. C’era una folla immensa: scendevamo dai vagoni, smarriti, non sapevamo cosa fare, perché c’erano le SS con i loro cani, i prigionieri adibiti a dividerci, ad ammucchiare i nostri bagagli; le SS con i loro occhi gelidi e i loro sorrisini (straordinari i loro sorrisini), avevano un ghigno con il quale ci dicevano: “State calmi, calmi, adesso vi dobbiamo solo registrare e poi le famiglie saranno riunite”. Le donne con i bambini da una parte, e gli uomini dall’altra. Lasciai per sempre la mano di mio padre e non lo rividi mai più, e fui messa in fila con le altre donne. Certo non lo sapevo che non l’avrei più rivisto, che era un momento così determinante della mia vita” (Liliana Segre, Testimonianza registrata)

 “Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni. Ci saremmo attesi qualcosa di più apocalittico: sembravano (i soldati SS) semplici agenti d’ordine. Era sconcertante e disarmante. Qualcuno osò chiedere dei bagagli: risposero: ” bagagli dopo”; qual- che altro non voleva lasciare la moglie: dissero “dopo di nuovo insieme”; molte madri non volevano separarsi dai figli: dissero “bene bene, stare con figlio”. Sempre con la pacata sicurezza di chi non fa che il suo ufficio di ogni giorno; ma Renzo indugiò un istante di troppo a salutare Francesca, che era la sua fidanzata, e allora con un solo colpo in pieno viso lo stesero a terra; era il loro ufficio di ogni giorno. In meno di dieci minuti tutti noi uomini validi fummo radunati in un gruppo. Quello che accadde degli altri, delle donne, dei bambini, dei vecchi, noi non potemmo stabilire né allora né dopo: la notte li inghiottì, puramente e semplicemente. Oggi però sappiamo che in quella scelta rapida e sommaria, di ognuno di noi era stato giudicato se potesse o no lavorare utilmente per il Reich; sappiamo che nei campi rispettivamente di Monowitz- Buna e Birkenau, non entrarono, del nostro convoglio, che novantasei uomini e ventinove donne, e che di tutti gli altri, in numero di più di cinquecento, non uno era vivo due giorni più tardi. Sappiamo anche, che non sempre questo pur tenue principio di discriminazione in abili e inabili fu seguito, e che successivamente fu adottato spesso il sistema più semplice di aprire entrambe le portiere dei vagoni, senza avvertimenti né istruzioni ai nuovi arrivati. Entravano in campo quelli che il caso faceva scendere da un lato del convoglio; andavano in gas gli altri. Così morì Emilia, che aveva tre anni; poiché ai tedeschi appariva palese la necessità storica di mettere a morte i bambini degli ebrei. Emilia, figlia dell’ingegner Aldo Levi di Milano, che era una bambina curiosa ambiziosa, allegra e intelligente; alla Fondazione CDEC 5 quale, durante il viaggio nel vagone gremito, il padre e la madre erano riusciti a fare il bagno in un mastello di zinco, in acqua tiepida che il degenere macchinista tedesco aveva acconsentito a spillare dalla locomotiva che ci trascinava tutti alla morte. Scomparvero così, in un istante, a tradimento, le nostre donne, i nostri genitori, i nostri figli. Quasi nessuno ebbe modo di salutarli. Li vedemmo un po’ di tempo come una massa oscura all’altra estremità della banchina, poi non vedemmo più nulla.

(Giorgina Bellak, Donne e bambini nei lager nazisti. Testimonianze dirette (a cura di  Giovanni Melodia, Milano, ANED, 1960, p. 50)

“Mi hanno separata dalla mamma, la mamma, la mamma” ripetevo mentre venni spogliata, e cadevano le mie trecce con i fiocchi e venivo rasata, disinfettata, rivestita con una lunga palandrana grigia, zoccoli di legno ai piedi e sul collo appeso un numero: 11152, da allora il mio nome. “Mamma, mamma, mamma!. Ripetevo a Birkenau, dove si camminava sulle ceneri. Ad Auschwitz, dove ci spostarono nel lager C, baracca 11. Per cinque settimane ho continuato a ripetere e ho pianto la mamma…”

(Edith Bruck  “Il pane perduto” “…Siamo abituati a piantarci su lunghe file alle sette del mattino, a mezzogiorno e alle sette di sera, con la gavetta in pugno, per un po’ di acqua tiepida dal sapore di sale o di caffè o, se va bene, per qualche patata. Ci siamo abituati a dormire senza letto, a salutare ogni uniforme scendendo dal marciapiede e risalendo poi sul marciapiede. Ci siamo abituati agli schiaffi senza motivo, alle botte e alle impiccagioni. Ci siamo abituati a vedere la gente morire nei propri escrementi, a vedere salire in alto la montagna delle casse da morto, a vedere i malati giacere nella loro sporcizia e i medici impotenti. Ci siamo abituati all’arrivo periodico di un migliaio d’infelici e alla corrispondente partenza di un altro migliaio di esseri ancora più infelici …”

(Petr Fischl, nato a Praga il 9/9/1929, deportato a Terezin l’8/12/1943, morto ad Auschwitz l’8/10/1944)

“Hurbinek era un nulla, un figlio della morte, un figlio di Auschwitz. Dimostrava tre anni circa, nessuno sapeva niente di lui, non sapeva parlare e non aveva nome: quel curioso nome, Hurbinek, gli era stato assegnato da noi, forse da una delle donne, che aveva interpretato con quelle sillabe una delle voci inarticolate che il piccolo ogni tanto emetteva. Era paralizzato dalle reni in giú, aveva le gambe atrofiche, sottili come stecchi; ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo. La parola che gli mancava, che nessuno si era curato di insegnargli, il bisogno della parola, premeva nel suo sguardo con urgenza esplosiva: era uno sguardo selvaggio e umano ad un tempo, anzi maturo e giudice, che nessuno fra noi sapeva sostenere, tanto era carico di forza e di pena. Nessuno, salvo Henek: era il mio vicino di letto, un robusto e florido ragazzo ungherese di quindici anni. Henek passava accanto alla cuccia di Hurbinek metà delle sue giornate. Era materno piú che paterno: è assai probabile che, se quella nostra precaria convivenza si fosse protratta al di là di un mese, da Henek Hurbinek avrebbe imparato a parlare…

( “La tregua” Primo Levi)

“È davvero meraviglioso che io non abbia lasciato perdere tutti i miei ideali perché sembrano assurdi e impossibili da realizzare. Eppure me li tengo stretti perché, malgrado tutto, credo ancora che la gente sia veramente buona di cuore. Mi è impossibile costruire tutto sulla base della morte, della miseria, della confusione. Vedo il mondo mutarsi lentamente in un dserto, odo sempre più forte l’avvicinarsi del rombo che ci ucciderà, partecipo al dolore di migliaia di uomini, eppure quando guardo il cielo, penso che tutto si volgerà nuovamente al bene, che anche questa spietata durezza cesserà, che ritorneranno la pace e la serenità.”

(Il diario di Anna Frank)

La farfalla

L’ultima, proprio l’ultima,

di un giallo così intenso, così assolutamente giallo,

come una lacrima di sole quando cade sopra una roccia bianca

così gialla, così gialla! l’ultima,

volava in alto leggera, aleggiava sicura

per baciare il suo ultimo mondo.

Tra qualche giorno

sarà già la mia settima settimana di ghetto:

i miei mi hanno ritrovato qui

e qui mi chiamano i fiori di ruta

e il bianco candeliere di castagno nel cortile.

Ma qui non ho rivisto nessuna farfalla. Quella dell’altra volta fu l’ultima:

le farfalle non vivono nel ghetto.

(Pavel Friedman, Praga 1921 – Auschwitz 1944)

 

Prima vennero per gli ebrei

e io non dissi nulla perché non ero ebreo.

Poi vennero per i comunisti e io non dissi nulla perché non ero comunista.

Poi vennero per i sindacalisti e io non dissi nulla perché non ero sindacalista.

Poi vennero a prendere me.

E non era rimasto più nessuno che potesse dire qualcosa.”

(Martin Niemoeller Pastore evangelico deportato a Dachau,”Prima vennero gli ebrei” )

 

“Doveva essere migliore degli altri

il nostro ventesimo secolo.

Non farà più intempo a dimostrarlo,

ha gli anni contati,

il passo malfermo,

il fiato corto. […]

Come vivere?-mi ha scritto qualcuno a cui io intendevo fare

la stessa domanda.

Da capo, e allo stesso modo di sempre, come si è visto sopra,

non ci sono domande più pressanti delle domande ingenue.

(WISLAWA SZYMBORSKA, Scorcio di secolo)

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